Ferdinanda Frau, perpetua nata ad Arbus il 15 aprile 1923,
ci racconta la sua vita a patto che non le facciamo domande o la interrompiamo. Di famiglia modesta, il padre lavorava sia in miniera che in campagna, lei era la settima figlia dopo 5 maschi, tra cui uno morto a 7 mesi e una sorella morta a 13 mesi. Racconta che la madre provava vergogna quando restò incinta di lei perché da poco le era morta l’altra figlia. Iniziò a lavorare da bambina, a otto anni, sia nei campi sia nella raccolta delle olive, e poi presso una signora, moglie di un macellaio, che la faceva andare al mattatoio per prendere le frattaglie degli animali, portarle a casa per pulirle per poi poterle vendere. I suoi fratelli da ragazzi andarono tutti a lavorare fuori, uno divenne carabiniere e un altro entrò in finanza. Essendo la più piccola e vedendoli poco, quando venivano in licenza lei provava vergogna e si nascondeva, ma poi loro la coccolavano, la facevano giocare e pure la sgridavano se combinava qualche marachella. Fin da piccola le piaceva tanto andare in chiesa, ma lo faceva con le mamme delle amiche dato che la sua non ci andava mai perché diceva che uscire di casa era una mancanza di rispetto nei confronti dei figli che lavorano fuori. Dalla mamma apprese le prime preghiere in sardo che recitavano quotidianamente la sera. Anche in occasione delle feste più importanti del paese, come San Lussorio e Sant’Antonio, lei andava con le mamme delle amiche. Dei sacerdoti di quell’epoca ricorda predi Lampis, chiamato anche il prete dei poveri, e il canonico Matzeu. La messa, quando lei era bambina, veniva celebrata solo la mattina presto, alle 6 o alle 7, e per poter ricevere la comunione ricorda che si doveva essere digiuni dalla mezzanotte. Nel caso delle messe per i funerali c’erano delle differenze: se il defunto era una persona ricca le si celebrava “a tottu pompa” con tre sacerdoti, se era benestante “a mesu pompa” con due sacerdoti e se era povera invece a celebrarle era solo un prete. In seguito un vescovo fece eliminare queste differenze di trattamento dei defunti, affermando che essi sono tutti uguali davanti a Dio. Frequentava il catechismo, dove apprendeva anche altre nuove preghiere in sardo e che doveva imparare alla perfezione per poter ricevere i sacramenti. A 7 anni fece la prima comunione e per l’occasione indossò un vestito color rosa e un velo che le fu prestato da una vicina di casa perché la sua famiglia non poteva permetterselo. Questo tipo di velo veniva poi conservato e usato sia in queste occasioni sia per coprire i defunti. Indossò anche una ghirlanda di fiori freschi raccolti in campagna, usanza che pochi anni dopo venne eliminata. Per la prima comunione i bambini dovevano andare in processione dalla chiesetta di San Lussorio fino alla chiesa principale, dove ricevevano il sacramento. Ad Arbus venivano sempre i missionari che raccontavano le loro esperienze e poi arrivarono le suore che insegnavano a tutti le preghiere in italiano: lei, una volta imparate, le insegnava alla mamma, che le conosceva solo in sardo.
Racconta che in un buio mattino, erano le 6, mentre andava a casa dell’amica per poi recarsi in chiesa andò a sbattere contro un bue. Spaventata, pensò che il bue le potesse fare del male, invece l’animale si era spostato e lei pensò che Dio l’avesse aiutata e protetta. Ripete a memoria i dieci comandamenti in sardo: 1 Ama su Deus tuu; 2 Non nominisi su nomini de Deusu po nudda; 3 Arregorarì de santificai is festasa; 4 Onora e ascuta a babbu e mama po chi si bivasa mera tempusu in su mundu; 5 Non bocciasa; 6 No fornichisi; 7 No furisti; 8 No contisi fabasa; 9 No disigisi i benisi e is richezasa de is alleusu; Non disigisi sa mulleri allena. Ricorda anche is pregontasa, le domande che si facevano, come “Chi ci ha creato?”, “Ci ha creato Dio”. Da ragazza iniziò a fare la perpetua con don Meloni, giovane sacerdote di San Gavino nominato parroco ad Arbus, che abitava nella casa parrocchiale con le due sorelle. Racconta che don Meloni e le sorelle erano gente brava e che la trattavano bene. Quando don Meloni venne trasferito ad Ales e diventò segretario del vescovo, occupandosi anche dell’archivio della Diocesi, lei venne invitata a continuare a prestare il suo servizio mentre a don Meloni moriva una sorella. In seguito andò a prestare servizio a un sacerdote a Pabillonis che viveva con la madre e di cui non ricorda il nome. Ad Arbus poi arrivò don Corona e lei tornò a prestare servizio nel suo paese. Ricorda che faceva le ostie a casa con acqua e farina e col ferro da stiro per poi ritagliarle. I pezzettini avanzati li dava sempre da mangiare ai chierichetti e ai bambini. Le faceva in casa per evitare a don Corona di andare a comprarle a Cagliari.
Smesso di lavorare, tornò a vivere a casa, ma si ammalò e venne sottoposta a diversi interventi chirurgici. Quando si rese conto di non essere più in grado di badare a se stessa e avendo pochi parenti, decise di andare a vivere nella comunità alloggio sacerdote Lampis, dove venne accolta e accudita con amore. Anche la sua vista calò notevolmente, ma nonostante tutto è una donna che non si lamenta, che emana pace e serenità e che conquista col suo sorriso. Non rinuncia alle sue abitudini: la recita del rosario, che stringe fra le mani, l’ascolto della messa e dell’ora della spiritualità attraverso la radio. E quasi a farci capire che l’intervista è giunta al termine, si alza dalla sua poltrona dove stava rannicchiata con la testa china, come volesse riflettere meglio, e accende la radio perché inizia la messa. La salutiamo ringraziandola per la sua disponibilità, ma è lei che vuole ringraziarci perché le abbiamo fatto rivivere i ricordi di una vita, e mentre ci chiniamo per un abbraccio ci sussurra che avrebbe un desiderio nel cuore, anche se forse non si realizzerà a causa della sua età avanzata e dei problemi di salute, quello di recarsi ad Ales, in cattedrale. Le rispondiamo, strappandole una risata, che forse non è così impossibile perché d’altronde… le vie del Signore sono infinite.
Adele Frau
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