di Alessia Vacca
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«Caro Davide, non ci dimenticheremo mai di come sei riuscito a far affiorare in noi delle emozioni e delle sensazioni che una vita da reclusi spesso soffoca e impedisce di tirar fuori. Tornare ad avere una penna in mano per scrivere ci ha tolto dal silenzio», con queste parole i detenuti del carcere Is Arenas di Arbus hanno voluto ringraziare Davide Forte, lo scrittore villacidrese che ha dato vita ad un progetto di scrittura immersiva dal quale è nata una raccolta di poesie e racconti intitolata Granelli di sabbia. In occasione della conclusione del progetto abbiamo intervistato l’ideatore per comprendere meglio come sia nata l’iniziativa e le varie impressioni scaturite nelle diverse fasi che si sono succedute.
Com’è nata l’idea di scrivere in maniera collettiva?

«L’idea di una scrittura collettiva mi è balenata nel 2016, quando ho presentato il mio primo libro, Portrait. Durante la presentazione ho diviso i racconti portanti del libro secondo dei temi: il primo racconto nel segno della gioventù, il secondo nel segno della maturità e il terzo
racconto come momento d’incontro tra queste due fasi della vita ossia il momento della consapevolezza. Così subito dopo la lettura di una parte scelta del primo racconto, ho pensato di distribuire dei foglietti e delle penne per domandare al pubblico di condividere, in forma anonima, i propri sogni, i desideri e le aspirazioni che rappresentano la “colonna sonora” della nostra giovinezza. All’inizio ero quasi timoroso dell’esito e, invece, il pubblico ha risposto con grande entusiasmo e partecipazione. Questi foglietti sono finiti su un tabellone in legno a conclusione delle presentazioni e sono stati da me conservati come un bene molto prezioso. I sogni in essi contenuti sono stati riportati, in parte, dentro L’equivalente dei sogni, il mio secondo libro. Non sono altro che le nostre aspirazioni più comuni, che poi diventano un progetto e poi ancora un percorso, una sorta di mappa del tesoro. In carcere il percorso è stato molto simile, ma non si è partiti da un sogno, bensì da delle parole, dal significante e dal significato di esse. È molto più semplice di quanto sembri, perché quelle parole, nell’utilizzo che ne abbiamo fatto, sono state come dei mezzi di trasporto che hanno permesso loro di muoversi nel mondo, come fossero regole sociali, tratti identificativi di un collettivo. Ed ecco per esempio che la parola “mare” li ha portati in una spiaggia, con i propri affetti, con una canna da pesca in mano, davanti a un tramonto. Semplicemente questo fanno le parole».
Come si è sentito la prima volta che ha visitato il carcere?
«Entrare in un luogo di detenzione ti cambia. Tutto inizia quando superi la prima sbarra di ingresso al carcere. Lì lasci il telefono in guardiola ed è come sentirsi nudi, senza orpelli, senza artifici, niente di straordinario, solo quello che si è in tutta la propria semplicità. Così mi sono sentito davanti alla direzione, agli educatori e ai detenuti, e loro questo lo hanno apprezzato».
Come si è svolto il lavoro nel concreto?
«All’interno di uno spazio adibito ad aula, i detenuti che hanno partecipato al progetto, hanno ricreato una sorta di casa, esprimendo nero su bianco i loro pensieri, le loro percezioni e le loro speranze a partire da pagine scelte a caso di qualsiasi testo o da immagini. Gli incontri con i detenuti sono stati vissuti con la parvenza di un gioco, ma con la finalità di fare emergere le sensazioni più intime e nascoste di ogni animo. È stato un lavoro ricco di spunti di riflessione per ogni singolo individuo, ma la vera bellezza è stata nella forza del gruppo. Una sorta di pensiero collettivo, di poesia sociale, uscita da chi oggi vede la propria posizione nella società, congelata, sospesa. L’unica cosa di straordinario che ho fatto io è stata starli ad ascoltare, stimolarli e aiutarli a ricostruire il puzzle, il resto lo hanno fatto loro (devo dire alcuni con grande capacità e, a un certo punto del percorso, in autonomia). Per portare avanti un progetto del genere in un carcere c’è bisogno di educatori e dirigenza illuminati. A vedere bellezza negli elaborati è stato poi un editore, Giovanni Fara di Catartica Edizioni, al quale ero promesso sposo per un altro libro che sta ancora chiuso nel cassetto, ma di fatto per me, da lì in poi, l’urgenza è diventata un’altra: far sentire la loro voce. Inoltre ci tengo a dire che i diritti d’autore saranno donati a un’associazione (già individuata da detenuti, direttrice e educatori) che sta portando avanti un percorso con i detenuti stessi, e non solo visto che si occupa anche delle vittime di reato, in un progetto a livello nazionale di “giustizia riparativa”».
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