Cultura Villacidro

Cogas, un libro di Efisio Cadoni

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“Racconti di streghe tra storia e leggenda” è il sottotitolo di Cogas (Book Sprint Edizioni), con cui quel versatile artista che è Efisio Cadoni (poeta, saggista, pittore, scultore) esordisce ora in ambito narrativo. Una donna bellissima campeggia sulla copertina del libro, in una convenzionale iconografia della strega come donna bella, giovane, ornata di collana e di fiori o di motivi floreali.

È una copertina che però non piace all’autore, che le preferisce quella della raccolta più artigianale precedente alla pubblicazione di questi stessi racconti, dove invece c’è una figura di rara bruttezza. Il fatto è che le cogas sarde, specie se identificate con le bruxias o con le surbiles, che succhiano il sangue ai neonati (o anche con le panas), non sono belle. Né lo sono le fate sarde, cioè le nane janas.  Ma infondo è irrilevante disquisire sull’aspetto delle cogas (e dunque sull’adeguatezza dell’immagine della copertina di questo libro su di loro) e il confronto con la copertina consimile di altri volumi in cui si parla di streghe, come per esempio il recente Il cerchio magico (Effigi edizioni, Grosseto, 2011), che raccoglie gli atti di un convegno sulle streghe in racconti popolari della Maremma toscana, è piuttosto solo uno spunto da sfruttare per ribadire che ci troviamo di fronte a una materia in cui le tradizioni (anche quelle più apparentemente locali) si mescolano, si intrecciano, si confondono con quelle di altri luoghi e latitudini, in un magma multiforme e difficilmente “afferrabile”, difficilmente scomponibile in elementi discreti e, in quanto tali, ben separabili gli uni dagli altri.

Ed Efisio Cadoni sa bene che di streghe (fin dall’antichità) è pieno il mondo, sa bene che ovunque si possono raccogliere o costruire storie e leggende al riguardo. Di streghe è affollata del resto la letteratura, e non solo quella orale e popolare (come non pensare, per esempio, almeno al Maestro e Margherita di M. Bulgakov?), di streghe è affollato il cinema (chi non ricorda i film Ho sposato una strega, con Veronica Lake, oppure Una strega in Paradiso, con Kim Novak e Jack Lemmon?). Inoltre, come nella costruzione e organizzazione di tutte le leggende che circolano e si producono nel circuito orale, anche in quelle di streghe – e qui di cogas – c’è una particolare polifonia. Le leggende scaturiscono intanto soprattutto nel dialogo, si narrano tra persone che si trovino in presenza di un luogo, un oggetto preciso, una roccia, in una  situazione in cui si può dare la stura al racconto anche a partire da una battuta riferita a un fatto di vita quotidiana…: basta un accenno, e si può ri-raccontare una leggenda, con il contributo di tutti i partecipanti a una data conversazione. E c’è chi aggiunge un particolare, chi un altro. Il testo che ne scaturisce risulta o può risultare dunque costruito da voci diverse. Questa particolare polifonia, questa voce collettiva che si deposita su testi di questo tipo, è come leggibile in controluce anche quando ci sia qualcuno (come, in questo caso, Efisio Cadoni) che raccoglie, riscrive e mette insieme a modo suo motivi narrativi che circolano nella comunità e dei cui frammenti ogni singolo membro è depositario-custode, conoscendone però solo alcuni (e mai tutti). Per cui è sempre interessante vederli raccolti e riproposti, manipolati e reinventati, da chi si prenda la briga di farlo (a voce o, come in questo caso, per iscritto).

Emerge dunque, da questi racconti polifonici, una sorta di catalogo di donne streghe; ma vi compare anche qualche cogu al maschile, primo tra tutti S’acunna, un grande donnaiolo, un casanova impenitente, la cui debolezza costituisce anche la sua rovina, protagonista di un lungo racconto composito in cui molti elementi storici sono intercalati al materiale fantastico. La lotta contro i francesi di Truguet, i riferimenti a Vincenzo Sulis, la cacciata dei piemontesi e altro ancora si mescolano alla vicenda di questo villacidrese anomalo, S’Acunna appunto; mentre un altro cogu è Mabullu, il protagonista dell’ultimo racconto della raccolta. La maggior parte dei racconti è però dedicato alle cogas, designate tutte con il loro nome e soprannome, della cui natura di soprannome si perde spesso consapevolezza e che finisce per venir ritenuto dalla comunità il vero cognome. Ogni coga così designata è protagonista di uno dei 13 racconti a lei intitolato, cui si aggiunge quello di Zosima e Apronia, in cui le protagoniste sono invece due: due sorelle.

Non è il caso di riassumere qui queste storie, per non togliere nulla alla curiosità e al gusto dei singoli lettori di scoprire le‘sorprese’ narrative che contengono. Ci si può limitare a dire che queste donne-streghe sono tutte diverse, sono ora fate romanticamente tese alla ricerca della felicità (è il caso di Nanussa), ora madri e brave massaie (come Giàa, con i suoi 17 figli), ora seduttrici instancabili (come S’Ancroia), ora sospette infanticide (come Zia Annetta Fiuferru), ora sospette uxoricide – anzi «mariticide», dice il narratore, (come Felicina Pitziò) streghe che cercano di redimersi (Catalìa Coga) oppure che cercano la felicità, per scoprire alla fine che essa consiste nella libertà e nel poter gestire liberamente le proprie scelte, senza dipendere passivamente da decisioni maschili. Si tratta di donne insofferenti, dunque, del ruolo tradizionale che, specie nelle piccole comunità, veniva dato loro dalle convenzioni sociali; di donne che perciò si può fare in fretta a stigmatizzare come streghe. E sono tipi di donne senza tempo, che cioè possono nascere e rinascere, e dunque ritrovarsi, nei tempi storici più diversi, senza che si debba necessariamente pensare a una loro ‘magica’ eternità.

Ma, come in tutte le leggende e storie di streghe, c’è un loro particolare legame con i luoghi, e con luoghi particolari.  Qui il luogo è Villacidro, che finisce per campeggiare anch’essa come protagonista trasversale di tutti questi racconti. E Villacidro – sembra siano tanti a saperlo – è la Benevento sarda, quella Benevento tanto evocata in raccomandazioni fatte spesso alle bambine (tipo:«Pettinati, che sembri la strega di Benevento»), che diventa loro nota prima ancora di localizzarla sulla carta geografica scoprendo dove si trova. Villacidro è dunque paese di coghe, cioè di streghe, il cui nome in sardo (dal lat. coquo) mette etimologicamente in evidenza che sono ‘cuoche’, elaboratrici di decotti, filtri magici, pomate, la cui preparazione accompagnano proferendo formule di medicina popolare che  solo loro conoscono; come nel caso dei brebus, le parole da tenere segrete, che non si possono rivelare ad estranei, in un sapere da tramandare solo a singole altre ‘eredi’ di tali saperi misteriosi.

In questi racconti di Cadoni emergono in modo preciso e topograficamente esatto tutti i luoghi sia di Villacidro che dei suoi dintorni, con i monti che la circondano, i loro boschi, le loro acque, le loro rocce,  descritti con amore e in modo letterariamente efficace. La ‘poesia e il fascino’ dei luoghi si ritrovano per esempio in passi come questo: «era arrivato in quel famoso paese delle streghe, ai límiti della pianura dell’ísola piú bella dell’universo, chiuso a nord, a ovest e a est dai monti che non sono veramente monti, ma sémbrano piú alti dei monti veri, i rilievi piú solenni, le colline piú rocciose e misteriose del mondo, con un’acqua speciale che balza giú dalle núvole a cateratte di roccia in roccia» (p. 54).

Inoltre, da questi racconti (tralasciando le rapsodiche ‘notizie’ storiche ed etimologiche iniziali, anch’esse enciclopediche o, come oggi si potrebbe dire,wickipediche) emerge una sorta di enciclopedia di saperi popolari e femminili che include quelli legati alle erbe e ai funghi, ben suddivisi in  mangerecci e velenosi, materia di filtri d’amore, delle pozioni e degli unguenti più vari. Sono saperi detenuti per esempio da Assunta Cariga – detta così per le sue straordinarie capacità olfattive (is carigas sono in sardo le narici) – che riconosce al solo fiuto un’erba dall’altra oppure dall’«erbaiolo» (così viene detto nel testo) S’Acunna, che molti vanno a trovare «per i suoi infusi di vino e d’elicriso, s’uscradina, contro i morsi dei serpenti o per fare l’acqua di fiori, s’aqua ‘e is froris, per render mòrbida e liscia la pelle; con il rosmarino, tzíppiri, curava l’emicrania e i dolori muscolari o bruciori di stomaco; e curava i dolori mestruali con le foglie d’alloro, su lau, o usava la salvia, sa salvia, per cicatrizzare le ferite o decotti per curare l’asma o la parietaria, s’erbientu, l’erba-del-vento, per fare cataplasmi per le ustioni della pelle» (p. 138).

C’è poi una sorta di ‘enciclopedia’ anche di mestieri maschili e/o femminili : tutta da citare sarebbe la pagina (p. 83) , in cui si parla di Antusa Pubusa, che «aveva appreso tutti i mestieri degli uomini, oltre a quelli femminili» e cui però non spetta mai il titolo di maista: sarta, è solo trappera e non maist’e pannu, falegname, è solo fustera e non maist’e linna, muratrice, è solo muradora e non maist’e muru. Il titolo di maista, insomma, le si addice solo quando, in un lavoro tipicamente femminile, diventa maist’e partu, più che semplice levadora,  per di più sospetta di ‘cogheria’, come in fondo tutte le maistas’e partu

Ed emerge il gusto e l’attenzione dell’autore per la lingua, segnalato dai soliti accenti sulle parole non piane (un vezzo inutile, ma diventato ormai quasi la firma di Efisio Cadoni) ed evidente anche nei passi qui citati testualmente, con scelte lessicali che possono cumularsi in una lunga serie di quasi sinonimi: si possono citare quelli utilizzati per designare la laida bruttezza di S’Ancroia (p. 50), che rivelano un lavoro di scavo nei dizionari e che, insieme, sono funzionali alla resa polifonica di varie voci e giudizi, in un coro di aggettivi che, a tre a tre, si inseguono nel qualificare l’orrenda bruttezza di questa strega, la più repellente di tutte: «questo diceva: sordida, sudicia, lorda; quest’altro: lercia, schifosa, turpe; quest’altro ancora: sconcia, infame, trista; quello aggiungeva: spregévole, repellente, ripugnante; quell’altro: vomitévole, nauseante, abietta; quell’altro ancora: sgradevolíssima, orríbile, spaventosa. E c’era chi continuava: […] corrosiva, esiziale, mortifera. E tanti altri, con mille variazioni d’intensità, di fastidio, di ribrezzo» (p. 50). La simpatia, in questo racconto, va tutta a Ziliu, il fraticello che, un po’ per merito un po’ per fortuna,  riesce a non cadere nelle grinfie della coga. Bisogna dirlo per evitare che queste annotazioni diventino fuorvianti: non si tratta in genere di digressioni o di parentesi che rendano le pagine pedanti. Anche quando l’autore si concede espansioni enciclopediche o esibizioni di perizia dizionaristica, lo fa in passi che, comunque, sono funzionali alla resa narrativa e alla caratterizzazione dei personaggi (cioè le coghe di turno, su cui il racconto è focalizzato). S’Ancroia appena citata, per esempio, è una fata seduttrice instancabile, che può apparire bellissima e che si fa amare da tutti, ma che poi tutti fa impazzire inducendoli al suicidio (e viene da dire che qui non c’è nessuna Redenta Tirìa niffoiana che venga a salvarli).

C’è poi un crescendo, anche di estensione, in questi racconti, in cui pian piano e via via che si va avanti emerge anche qualche figura maschile, assumendo nel testo una sempre maggiore centralità, tanto che alla fine troviamo i due racconti su cogus già citati (S’Acunna e Mabullu), preceduti dal racconto (che si può considerare di ‘transizione’) intitolato a Mamanca, ma dove comincia a delinearsi anche una figura magica maschile. Mamanca è la coga che riesce a ‘creare’ eventi e persone con la sola forza del pensiero, ed è efficace il suo finale problematico e surreale, che si chiude con un punto interrogativo: è infatti una Mamanca travestita il personaggio inseguito e raggiunto da un ragazzo che la scambia, come i tanti altri che la inseguono in una caccia all’uomo collettiva, per il probabile assassino di tante persone. Ma sorge il dubbio che l’assassino, il cogu inafferrabile, sia mai esistito veramente e si sia trattato sempre della stessa e sola Mamanca: «era tutto un’illusione?» (p. 135). Inoltre, a proposito di finali, si può trovare una ironia di leggerezza calviniana (e/o di leggerezza popolare, dato che la si ritrova proprio nel Calvino riscrittore di fiabe, nel Calvino delle Fiabe italiane) alla fine del racconto su Quiteria, la sospetta coga il cui starnuto si accompagna sempre a qualche morte (casualità? oppure lo starnuto ne è davvero la causa?). Amante di Felice, che ben presto se ne stanca e la respinge, Quiteria finisce così, starnutendo, per ucciderlo; ma alla fine morirà lei stessa per un proprio, per quanto piccolo starnuto (p. 100).

Gustosi sono dunque questi racconti, che hanno tutto il fascino dei racconti popolari, muovendosi tra storia e finzione, tra dicerie e storie po fai a timi, in vicende paurose montate abilmente e che solo qua e là mostrano qualche passo o ingranaggio non ben oleato, quando le notizie storiche non arrivano a fondersi armonicamente con la finzione narrativa. Ma, in genere, la loro lettura si fa sempre più avvincente e fluida, dopo le brevi e rapsodiche annotazioni informative storico-erudite dei capitoli introduttivi e iniziali, che conviene magari leggere dopo i ben più leggeri racconti. Insomma, questo di Efisio Cadoni è un altro libro da leggere,  e che non si può non leggere, soprattutto da queste parti. Come il cogu– autore dalle mille risorse ci impone.

Cristina Lavinio

 

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