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Collinas – Forru, l’uovo e la sua multifunzionalità nell’immediato dopo guerra

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di Francesco Diana
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Non tutti sanno ciò che l’uovo di gallina, in generale, ha rappresentato per le popolazioni sarde nell’immediato dopo guerra! Anche chi ha vissuto quei tempi, assuefatto alle agiatezze sopraggiunte in virtù del successivo “Boom economico”, ne ha un ricordo sbiadito ma tuttavia indelebile, tale da poter tramandare alle successive generazioni le esperienze di vita vissute, con l’auspicio che situazioni del genere non abbiano più a ripetersi in futuro.

Proprio in quest’ottica intendiamo rinverdire quei percorsi di vita vissuta, focalizzando ciò che l’uovo ha rappresentato per le popolazioni dell’interno della Sardegna. Erano i tempi in cui le popolazioni dell’interno, poiché dedite prevalentemente all’agricoltura, avevano sufficienti risorse alimentari, al contrario di quelle che risiedevano nelle città che, rispetto alle prime, disponevano invece di altri importanti prodotti quali scarpe, tessuti, abbigliamento e materie prime, che scarseggiavano invece nelle aree interne.

Tutto ciò determinò, spesso in un regime di scambio incontrollato, una sorta di mercato libero di prodotti fra l’interno e le città, con le uova di gallina al centro di ogni contrattazione, con la funzione di soddisfare molteplici esigenze, quali:

  1. A) quelle di carattere prettamente alimentare; B) quelle riguardanti la propagazione della specie anche ai fini della produzione di carni bianche; C) quelle assimilabili a una sorta di valuta naturale corrente, in costanza di crisi monetaria.

Entrando nel dettaglio, è fuori dubbio che l’uovo rappresenta un alimento prezioso per il suo alto potere nutrizionale e calorico, in virtù dell’alto contenuto in grassi, vitamine e lecitina. Per tali caratteristiche, oltre che per la sua disponibilità nella stragrande maggioranza delle famiglie nelle zone interne all’epoca in riferimento, costituiva elemento essenziale del regime alimentare in atto. Tuttavia, tenuto conto delle sue molteplici funzioni di cui si è detto, l’uovo doveva essere destinato al consumo diretto con una certa parsimonia, specie nelle famiglie numerose. Rappresentava l’alimento base del pranzo per chi operava in campagna (sode) e costituiva il classico secondo (alla coque) per le cene in famiglia, a integrazione di un promo piatto rappresentato dal “minestrone di legumi” o dalla classica “minestra dé ollu” (acqua + soffritto di olio, cipolla aglio e pomodoro secco), fatta con pastina rappresentata da spaghettini frantumati o “vermicellis finis” comunemente denominati scherzosamente “fuggitivus”, per la loro caratteristica di scivolare dal cucchiaio, alla stregua delle anguille in vasca!.

L’uovo per il secondo, come detto, era gestito dal capo famiglia con una certa parsimonia, specie in quelle più povere, nel modo seguente: veniva sminuzzata una fetta di pane e consegnato a ciascun membro un frammento da intingere nel tuorlo. I primo della fila doveva risucchiare la parte superiore dell’albume al fine di evidenziare il tuorlo su cui intingere il pane. Qualche volta, per fame o per esuberanza giovanile, l’aspirazione dell’albume trascinava anche il tuorlo, lasciando i commensali col pane in mano. Da ciò la nota locuzione del responsabile a giustificazione dell’atto compiuto: “pappau coccòi babbu”!

Altrettanto importante la funzione dell’uovo quale elemento di propagazione della specie “gallus -gallus”, anche ai fini della produzione delle carni bianche. All’epoca, ancora inaccessibili le incubatrici, la riproduzione della specie avveniva del tutto naturalmente grazie alle mani esperte delle mamme, in particolare, pronte a cogliere al volo le occasioni che si presentavano saltuariamente nel pollaio di famiglia, grazie alla chiocciola di turno, riconoscibile facilmente per il modo di arruffare le penne del collo e del dorso come risposta a una carezza, oltre che per il caratteristico verso emesso in giro per il pollaio con le ali semi aperte. Questa veniva opportunamente trasferita in un ambiente tranquillo e facilmente controllabile nonché sistemata in uno scatolone o all’interno di una “Corbula”, adeguatamente coibentati per evitare sbalzi termini durante il periodo di cova. A ogni chiocciola, anche in relazione alla sua grandezza, venivano assegnate alla cova intorno a 12 uova, 15 al massimo. Le uova da sottoporre alla cova dovevano essere preferibilmente di giornata, nonché provenire da un pollaio col giusto rapporto gallo-galline pari a 1/10 al massimo. Il rispetto di tali condizioni avveniva, in genere, grazie agli ottimi rapporti di vicinato sussistenti nella generalità dei paesi dell’interno. Per conoscere se l’uovo era fecondato, si eseguiva la classica “Speratura” servendosi di una fonte concentrata di luce (pila): l’avvenuta fecondazione era certa se appariva una forma “a ragno” e se il guscio era più trasparente e chiaro.

Intorno al 6°/7° giorno del periodo di cova, che nel complesso durava circa 20/21 giorni, avveniva il controllo delle uova al fine di verificare il normale andamento: se nella parte più alta era evidente la camera d’aria e in quella più bassa cominciava a evidenziarsi la formazione dell’embrione, il fine era garantito. Quando invece l’uovo guazzava all’interno del guscio come un qualsiasi liquido, si riteneva “sciacquadori” e quindi da eliminare.

Durante il periodo di cova, la chioccia abbandonava le uova solo per il tempo necessario a mangiare e compiere le restanti funzioni vitali.

Elettrizzante, sopratutto per i ragazzi, il momento della schiusa e quello successivo di adattamento alla vita, gestito con cura e protezione da parte della chioccia.

La terza importante funzione dell’uovo, sempre nel periodo in riferimento, è rappresentata dal suo utilizzo come valuta per l’acquisizione di beni di prima necessità o come baratto per la permuta con capi d’abbigliamento o altri beni di assoluta necessità.

Era l’epoca in cui si recava al negozio di “Generi Alimentari e Coloniali Vari”, a esempio, per acquistare “un uovo di concentrato di pomodoro(dé cunserva).  Prelevato con una paletta di legno da un grosso contenitore in lamiera, il concentrato veniva servito su cartoccio di carta oleata aperto da un lato, dove la quasi totalità dei bambini preposti all’acquisto, “a fai sa cumessioni”, infilava regolarmente il dito pensile, facendo arrivare a destinazione solo una piccola quantità del contenuto.

Analogamente si andava ad acquistare “duas libbas” (gr 800) di spaghetti, prelevati con le mani nude da uno dei tanti cassetti del bancone e venduti avvolti in carta straccia, offrendo il corrispettivo in uova. Nella sostanza, l’uso dell’uovo come moneta impropria, non prevedeva resto. Il suo valore sul mercato andava compensato necessariamente in merce, salvo episodici resti in “bianche mentine” o in “lecca-lecca” per la gioia dei bambini e, qualche volta, anche degli adulti.

Il “montante uovo”, realizzato da ciascun negozietto locale, costituiva poi oggetto di permuta-baratto con i commercianti delle città, per l’acquisizione di altri beni di largo impiego, quali scarpe, abiti, biancheria ecc., dei quali erano deficitari i paesi dell’interno.

L’uovo, in sostanza, costituiva all’epoca la valuta pregiata dei paesi dell’interno, con le fluttuazioni proprie del classico mercato della valuta monetaria in regime di concorrenza.

Quanto esposto, perché resti solo come sbiadito ricordo dei sistemi di vita di un popolo devastato delle nefaste conseguenze di una guerra, e funga da deterrente al primo accenno di eventuali future controversie fra gli abitanti del pianeta Terra.

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