di Francesco Diana
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Il termine “su sattu”, nell’antica concezione nostrana identificava quella parte del territorio comunale non occupata dal centro abitato. In ciascuna delle realtà isolane si arrivò all’identificazione di “su sartu de bidda”, definendolo come quel complesso dei terreni di proprietà dei cittadini residenti in un determinato paese. Tuttavia, le continue modificazioni originate dal regime di mercato fondiario, imposero l’adozione di una precisa identificazione geografica del territorio di ciascun comune, indipendentemente dalla residenza dei rispettivi proprietari terrieri, fissandone i confini: “Sa Lacana”, per distinguerli da quelli confinanti: “Lacanas a pari”. Si arrivò così all’istituzione del Catasto, con tutte le sue note articolazioni.
In “su sattu” di ciascun paese, in prossimità del centro abitato erano ubicati gli orti familiari, piccole superfici dotate in genere da fonti di approvvigionamento idrico, ma soprattutto le aie “is argiolas”, adibite alla trebbiatura di cereali e leguminose, in genere di proprietà delle aziende più rappresentative del paese. A Collinas, in particolare, si distinguevano quelle di “Santu Perdu” e quelle di “Stant’Arroccu”. Le prime, oltre alle aree ubicate in prossimità del cimitero (Garau-Peis-Usai-Tuveri-Scano ecc), comprendevano gran parte dell’area compresa fra l’attuale Via Vittorio Emanuele III, Corso Repubblica e Via Di Vittorio (Onnis P.Tuveri P.Spada A. e più), mentre le seconde abbracciavano l’area compresa fra la stessa Via Di Vittorio, la Via Gramsci e la Via Eleonora d’Arborea (Onnis L., Onnis B., Sanna L. Manigas P. e più), per poi estendersi oltre quest’ultima località fino a “S’argiola sa sennòra” (Scano L. Peis V. e più).
Inoltre, riguardo alla rotazione colturale adottata per consuetudine consolidata, “Su Sattu” di divideva in “Poboribi” e “Bidatsoni”: il primo identificava parte del territorio destinata alla coltivazione delle leguminose (“lòris minùdus” – colture miglioratrici) o a riposo pascolativo (pàsiu), mentre il secondo comprendeva la parte del territorio destinata alla coltivazione del grano da parte di tutti i coltivatori. Ovviamente, per effetto della rotazione, il “Paberile” subentrava al “Bidatsone” e viceversa.
Abbastanza interessante l’usanza di “Sa cumunella” o “Is pastùras abèrtas”, in atto ancora oggi a Collinas e in molti altri paesi della Sardegna, istituzione in virtù della quale tutti i terreni seminativi non chiusi o destinati a “Padru” vengono messi a disposizione dei pastori subito dopo il raccolto, o addirittura per tutto l’anno qualora a riposo (“a pasìu”). Per lo sfruttamento di detti terreni, ovviamente, i pastori sono tenuti al pagamento di un canone in rapporto al numero dei capi di bestiame posseduti, canone che, dedotte le spese di gestione del sistema, viene ripartito fra i proprietari dei terreni posti in “comunella”, riguardo all’estensione degli stessi.
Va precisato che non vige l’obbligo di conferire i terreni alla “comunella”, nello specifico “Comunione pascoli aperti”. I proprietari che per i più svariati motivi non intendono conferire i propri terreni alla “comunione pascoli”, sono tenuti a identificarli o con un solco perimetrale o attraverso opportuni segni identificativi (calce).
La toponomastica riguardante “Su sartu dé Forru” evidenzia, in particolare, dodici macro zone, all’interno delle quali s’identificano una miriade di sub toponimi che fanno riferimento alle caratteristiche orografiche della zona, al tipo di vegetazione spontanea dominante, alle attività umane del passato o agli insediamenti scomparsi e in qualche modo legati alle antiche famiglie proprietarie.
Le macro zone del territorio comunale sono quelle di: “Su Pardu”, “Concali”,“Coroneddas”, “Corongiu”, “Santa Maria”, “Monti”, “Funtana Seddi”, “Sa tuppa”, “Genn’è Maria”, “Pranu Mannu”, “Cost’è monti”- “Sedd’è mesu”, tutte servite da una rete viaria rurale comunale a fondo naturale o dalla classica “bia sarda” (strada campestre percorribile con difficoltà).
“Su Pardu” ad esempio, il cui toponimo trae origine dalla storica area pascolo del bestiame bovino in determinati periodi dell’anno, costituiva lo spauracchio degli addetti all’agricoltura, per via della distanza dal centro abitato, resa più accentuata dalla mancanza di un’adeguata viabilità. I più anziani ricorderanno quando il carro a buoi si doveva inerpicare nella salita denominata “dé cagadid’oi” o, in senso contrario, scendere a pieno carico con la stridente “Meccanica” (freno a inserimento manuale che agiva sulle ruote) inserita e con il conducente in posizione anteriore al giogo, nel classico “manixiu ananti” a sostegno delle povere bestie spaventate.
Anche la salita che da “Su craddaxiu” che conduceva a “Canaudu” e la successiva discesa fino a “Benatzu mannu”, con l’eventuale guado del rio omonimo, non costituiva certo un percorso più agevole.
Diversa la situazione riguardante “Coroneddas”, “Corongiu” e “Santa Maria”, l’unica parte del territorio comunale con giacitura pressoché pianeggiante, disimpegnata principalmente dalla strada intercomunale “Corongiu-Uras”. Benché abbastanza distante dal centro abitato, costituiva il fulcro dell’agricoltura forrese fin dai suoi albori. La maggiore penalizzazione per gli addetti, era rappresentata dall’abbondante e fastidiosa presenza d’insetti: “su scaparròi”, che turbava soprattutto i momenti di necessario riposo e infastidiva non poco anche durante il lavoro, specialmente nelle giornate dominate dallo scirocco.
Abbastanza frequentata la zona di “Funtana seddi”, non solo per la presenza dell’omonimo abbeveratoio comunale, con funzione alternativa e/o integrativa a quelli di “Su Angiu” e di “Funtana noba”, ma anche per le peculiari caratteristiche dei terreni, caratterizzati dell’alternanza fra terre profonde di fondo valle con altre sub pianeggianti, proprie delle giaciture collinari.
Una delle croniche carenze del territorio in parola, era rappresentato dall’inadeguatezza della rete stradale di supporto, che aveva in “sa pesàda dè mizz’è francu” l’asperità più difficile da superare con i mezzi a trazione animale, specie se a pieno carico.
A conclusione delle aree più rappresentative del territorio in esame, non ci resta che citare quella verde al naturale di “Bolasci” o quella di “Sa tuppa”, quest’ultima caratterizzata dalla prevalenza di vigneti e frutteti con produzioni destinate al consumo familiare. Alla fine degli anni ’60, epoca che ha segnato la fine di molte specie arboree fruttifere in tutto il territorio, la principale essenza arborea da frutto presente era il ciliegio, che vegetava rigoglioso in tutta la zona, riproducendosi spontaneamente per effetto della risemina per opera dei volatili.
In suddetto scenario costituisce in parte una delle tante pagine dell’albo dei ricordi, che ciascuno di noi incasella nella propria mente secondo la sequenza logica imposta degli eventi che hanno contrassegnato la propria esistenza.
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