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STORIA DI CASA NOSTRA

Collinas, situazione fondiaria nell’agricoltura d’altri tempi forme di contrattazione associative e contratti di affitto

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di Francesco Diana
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 Come citato in un precedente articolo dal titolo “Rapporti di lavoro subordinato nell’agricoltura di altri tempi”, la proprietà dei terreni apparteneva per la quasi totalità alle figure di “ Su Messàiu mannu”e “Su Messàieddu”, con la variante di “Messàieddu a giù e carru”. Con l’andare del tempo, per le motivazioni che di seguito andremo a chiarire, si vennero a costituire anche proprietà di una certa rilevanza appartenenti a “non coltivatori”, gestite in prevalenza con manodopera salariale.

Poiché i prodotti dell’agricoltura venivano in prevalenza consumati in loco, in quanto destinati al consumo diretto o barattati con beni e servizi di provenienza extra aziendale, succedeva che, per le imprevedibili variabili di natura atmosferica, la produzione aziendale non fosse sufficiente a garantire il saldo annuale delle esigenze aziendali e familiari, specie per i “Messàieddus”, da costringere gli stessi a chiedere prestiti ai “Messàius mannus” o a quanti, usufruendo dei redditi provenienti dall’esercizio di professioni o da impiego pubblico, avevano una certa quantità di moneta. Succedeva anche che, alla scadenza prestabilita, il debitore non fosse in grado di onorare l’impegno assunto e si trovava costretto a estinguere il debito tramite la cessione di alcuni terreni di proprietà, che andavano così a ingrandire le aziende dei “Messàius mannus” o a formare le grosse aziende capitalistiche condotte da imprenditori agricoli non professionali, presenti ancora oggi nel panorama agricolo regionale.

Ciò premesso, appare evidente come la conduzione di dette aziende non potesse prescindere dal ricorso a forme di contrattazione fra le varie categorie “imprenditoriali”.

I rapporti contrattuali di che trattasi venivano stipulati prevalentemente fra le figure più rappresentative del mondo agricolo dell’epoca, note come “Su messaàiu mannu” e “Su messaieddu”, quest’ultimo anche nella variante specifica di “Su messaieddu a giù e carru”. Solo eccezionalmente la stipulazione avveniva fra le due principali figure di cui sopra e i lavoratori privi di terra, di bestiame e di attrezzi pesanti a trazione animale.

Le tipologie più diffuse delle suddette contrattazioni erano quelle identificabili come: “A mes’a pari”, “A milliorìa” e “Affitto”.

Prima di descrivere nel dettaglio le tre categorie citate, è opportuno ricordare che all’epoca, e in molti casi ancora oggi, le coltivazioni erbacee erano coltivate in rotazione biennale, nella quale la coltura notoriamente sfruttante (grano e cereali da granella) seguiva quella miglioratrice (leguminosa da granella) o il riposo pascolativo.  La fase della coltura sfruttante prendeva il nome di “Bidazzoni” mentre quella riguardante la coltura miglioratrice o al riposo, prendeva il nome di “Paberili”.

A- Contratto di “Mes’a pari”

Il contratto riguardava espressamente “Su paberìli”, ossia la parte destinata alla coltivazione delle leguminose o lasciata a riposo. Solo eccezionalmente il terreno veniva concesso per l’intera rotazione (Paberìli + Bidazzòni).

Le clausole contrattuali prevedevano che il proprietario del terreno “Su mèri”, fosse tenuto a fornire metà delle sementi e dei concimi, oltre metà della manodopera riguardante la semina, la zappatura, l’estirpatura delle erbe infestanti e l’esecuzione di eventuali lavori straordinari. Tutto l’altro doveva essere fornito dal “Mesappàrista”. Le produzioni conseguite, compresa la paglia, erano divise in parti uguali fra i due contraenti.

Del suddetto contratto esistevano delle varianti, la più conosciuta delle quali era quella che assegnava a “Su Mèri” il compito di provvedere al dissodamento del terreno, alla fornitura della metà dei concimi e delle sementi e all’esecuzione dei trasporti delle produzioni (dal campo all’aia e dall’aia alle abitazioni di ciascuno). Per contro il “Mesappòrista” era tenuto a fornire la metà dei concimi e delle sementi e all’esecuzione degli interventi nell’aia, compresa la “bentuadùra”. Appare superfluo evidenziare che il contratto di “mes’a pàri” sul “Paberìli” era particolarmente favorevole per il proprietario, poiché consentiva di predisporre il terreno ad accogliere la coltura principale (grano) a costo zero.

B – Contratto a “Milliorìa”

Non molto diffuso in zona, ma comunque abbastanza interessante, secondo il quale il proprietario assegnava un terreno al concessionario, con l’obbligo di provvedere ai necessari miglioramenti o, nella maggior parte dei casi, all’impianto di una coltura arborea poliennale (vigneto, mandorleto, oliveto ecc.). Dopo alcuni anni, a miglioramento eseguito, il terreno veniva in genere diviso in parti uguali o nella percentuale prestabilita dai contraenti, facendo ricadere sul proprietario concedente l’obbligo di formalizzare gli accordi attraverso il solito documento traslativo per la cessione del diritto di proprietà in favore del concessionario.

Anche in questo caso, appare opportuno precisare che, tenuto conto del fatto che i terreni migliori erano, per consuetudine, utilizzati con le colture erbacee in rotazione biennale, i terreni concessi a “Milliorìa” erano in genere marginali, sia per le loro caratteristiche fisiche-elementari e sia anche per la loro distanza dal centro abitato, che all’epoca costituiva il centro aziendale per via dell’eccessiva polverizzazione fondiaria,

A tal proposito, come risulta dall’esame del catasto provvisorio riferito al 1846, tutte le proprietà in essere all’epoca di riferimento, erano in genere costituite da una miriade di piccoli o piccolissimi corpi fondiari irregolarmente sparsi in tutto il territorio comunale. Fra queste, per semplicità, ne citiamo alcune fra le più grandi, quali quelle appartenute a: Don Luigi Diana (grande) con ha 100 circa in 125 corpi fondiari, Don Luigi Diana Orrù con ha 74 circa in 54 corpi fondiari, Don Raimondo Diana (suocero di G. B. Tuveri) con ha 72 in 99 corpi fondiari, Tuveri Raimondo con ha 28 in 41 corpi fondiari, Onnis Giuseppe con ha 18 in 47 corpi fondiari, Onnis Rocco con ha 12 in 35 corpi fondiari, Scano Pietro Antonio con ha 12 in 30 corpi fondiari, Tuveri Antonio Maria con ha 12 in 18 corpi, ecc.

C – Contratti d’affitto

Il contratto d’affitto riguardava in genere l’intera rotazione agraria biennale; abbracciava quindi “Paboribi” e “Bidazzoni”, ossia la coltura miglioratrice (leguminosa) e quella sfruttante (cerealicola). Il canone pattuito, generalmente in natura, fissato in “très mòis” (tre starelli = 120 litri) di grano per ogni “mòi” (ha.0,40) di terra o le medesime quantità di fave per le stesse superfici, veniva pagato al termine di ogni annata agraria. In tempi successivi ha preso piede sempre più il pagamento del canone in contanti, ma sempre di entità corrispondente ai valori dei citati compensi in natura.

Si trattava, in genere, di accordi stipulati sulla “parola”, anche se in tempi successivi prendeva piede sempre più la forma contrattuale scritta, specialmente fra “Su messàiu Mannu” e “Su messaieddu a giù e carru”, principali protagonisti della citata forma contrattuale.

Da rilevare che oggetto di contratto d’affitto erano in genere i terreni marginali, per il disinteresse del proprietario a coltivarli (Messaiu mannu) per via dell’alto costo della mano d’opera.

In conseguenza di ciò, pur di giungere ad un accordo con gli eventuali affittuari, il proprietario arrivava addirittura a concedere determinati terreni per ben due rotazioni biennali, chiedendo l’affitto pattuito solo per la seconda annualità.

RIPRODUZIONE RISERVATA
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