di Alice Bandino*
____________________________

La condivisione delle emozioni sui Social è un argomento che abbiamo trattato spesso in questa rubrica, sia perché è una competenza socio emotiva che al giorno d’oggi necessita di più conoscenza, sia perché è stato 13 anni fa il mio argomento di tesi ed è quindi un piacere poterla presentare ai lettori della Gazzetta, rapportandola al periodo attuale.
Il periodo di fine estate appena trascorso, ha regalato alle cronache nostrane e a quelle nazionali, diversi spunti da prendere per introdurre l’argomento declinandolo però non all’utilizzo che i giovani fanno dei Social, ma all’utilizzo che ne fanno gli adulti.
Partendo dalle cronache e dai video degli stupri di Palermo e Caivano (Napoli), le indagini degli inquirenti riguardano anche l’ipotesi che i video fossero destinati al mercato nascosto pedopornografico: ovvero, ci sono degli adulti che provano piacere sessuale e gratificazione nel vedere video di stupri con vittime minorenni.
Non si sa ancora quindi se gli stupri siano commissionati da adulti pervertiti e se esistono dei territori nella nostra Italia dove compiere e filmare uno stupro equivale a garantirsi un reddito e non uno sbaglio di qualche minorenne o tardo adolescente sotto effetto di abuso di sostanze.
Già con queste premesse qualsiasi adulto, dovrebbe a priori condannare senza se e senza ma questi avvenimenti: che giustificazione si può trovare alla violenza perpetrata ai danni di una minore ubriaca (nel caso di Palermo) o di due cuginette di 10 e 12 anni (nel caso di Caivano)? Nessuna giustificazione, ne converrete tutti e tutte.
Questi casi si pensa sempre nascano in realtà degradate, in situazioni di disagio culturale e/o economico; le stesse chat degli stupratori che puntualmente vengono ritrovate e pubblicate, ci descrivono effettivamente povertà di linguaggio e nessun rispetto e valore per la vita umana, sia in questi casi che in casi simili compiuti in altri ambienti meno periferici (nella famiglia Grillo o nella famiglia La Russa ad esempio).
Allora perché persone socialmente importanti (essere il compagno della Presidente del Consiglio ha una sua importanza), scivolano con dichiarazioni fuori luogo e imbarazzanti che spostano l’attenzione dalle responsabilità dei violenti, alla colpevolezza delle vittime e delle loro famiglie?
Perché molti adulti che si lamentano tanto dei giovani incorrono in errori deprecabili di condivisione delle proprie emozioni? Questi adulti che provano a trovare le colpe nelle vittime, non avranno delle persone di fiducia che li spingano a capire l’errore di valutazione che stanno facendo e a chiedere almeno scusa per le parole scritte che offendono le vittime di stupro? Chi ha figli o figlie, chi ha sorelle, mamme, mogli, amiche può pensare davvero che esista un codice di comportamento che fermi la belva insita in ogni stupratore? Una belva assettata di sesso, violenza e perversione che solo il pronto intervento di altri presenti può fermare, ma se nessuno ferma la violenza, questa bestia si fermerà solo a lavoro compiuto, perché appunto privo o priva di limiti. Questo sappiamo succedere statisticamente soprattutto in famiglia e sempre più spesso tra “amici” e conoscenti. Chi non ha mai subito violenza immagino faccia fatica a immaginare di non poter scappare, come si vede spesso nei film, magari un colpo nelle parti basse (nel caso sia un violentatore uomo), una mossa di autodifesa e poi salva, libera di fuggire.
Nella realtà invece non va sempre come nei film: nella realtà, i giornali ci dicono che sempre più spesso i minori vengono adescati e stuprati nei modi più disparati: a scuola, a casa, in palestra, in oratorio; vestiti, poco vestiti, truccate, non truccate, di giorno o di notte, al nord al centro e al sud; non esiste un identikit delle vittime, chiunque e dovunque possiamo essere molestate, mentre il profilo del carnefice continua a ricalcare modus operandi ben precisi e comuni, osservabili in tanti casi condivisi dalla cronaca.
Tornando al discorso iniziale, perché una persona può trovare un proprio diritto, scrivere sui Social banalità o volgarità, atte a insinuare che la violenza del violentatore sia collegata a un’imprudenza delle vittime? Personalmente e professionalmente azzardo che il motivo sia in generale la troppa leggerezza nel capire la portata della condivisione sociale delle emozioni sui Social (specie se hai un ruolo pubblico o influente comunque) e, nello specifico, totale o scarsa padronanza e conoscenza dell’educazione sessuale, tanto tra i minori quanto tra gli adulti.
Gli addetti ai lavori è da qualche decennio che cercano di spiegare la necessità di affrontare nelle scuole l’educazione sessuale, che non è niente di scandaloso o di deviante per le menti dei ragazzi e sarebbe auspicabile proprio per rendere consapevoli sin dai bambini su realtà spesso taciute per pudore o per convenienza. E’ durante l’educazione sessuale che si affrontano argomenti come la prevenzione degli abusi, le buone prassi per evitare che un pomeriggio in discoteca diventi la scusa per subire molestie o abusi. Si parla degli effetti delle sostanze sul loro cervello, sull’inibizione del comportamento, sulla capacità di decisione, sulla vulnerabilità della volontà, sul rispetto della volontà altrui (no è no, sempre!).
Dire che le violenze si possono evitare, è giusto. Ciò che non è giusto è condividere pensieri sessisti, limitati, dal sapore patriarcale e retrogrado.
Le violenze non si evitano se il lupo è in giro e la potenziale vittima resta a casa; le violenze sono solo rimandate, perché prima o poi si dovrà uscire di casa e il lupo resterà sempre lupo, anche se si traveste da nonnina (per usare un linguaggio comune e attuale). Noi donne, ma in generale tutti noi, non siamo animali, non siamo come i tre porcellini che scappano di casa in casa per scappare dal lupo: noi siamo umani e umani dobbiamo restare, sia dopo aver incontrato una bestia, sia quando parliamo degli stupri altrui. Chi siamo noi per accusare le vittime o le famiglie? Siamo davvero convinti che a noi o ai nostri figli non possa mai accadere una molestia o un abuso? Eppure l’Istat ci dice che oltre alle donne che denunciano un qualche tipo di violenza, vi sono quasi 4 milioni di denunce fatte da uomini in Italia.
E questi quasi 4 milioni di uomini son stati abusati psicologicamente o fisicamente (o entrambi), da altri uomini (non donne), che per ruolo, posizione ed assenza di vittime femminili, hanno deciso di usare violenza su altri uomini, come loro.
Questo significa che la violenza ha sempre una base di potere da cui si parte per schiacciare un’altra persona che si valuta più debole ed erroneamente per troppi millenni le donne sono state considerate “il sesso debole”; forse è per questo che molti uomini maschilisti si convincono di poter esercitare il loro potere coercitivo sulle donne, perché più deboli dell’uomo.
Ecco dunque che l’uomo a volte si sente in diritto di dare consigli non richiesti sulla nostra sicurezza, ipotizzandoci vittime attive della violenza, ipotizzando che se volessimo, potremmo evitarle. Un pugno allo stomaco per chi, come noi, si occupa davvero di supportare le vittime dopo una violenza. Chi condivide con leggerezza non sa quanto sia difficile ad esempio denunciare una violenza in Italia: a volte l’ostilità la si percepisce anche nelle caserme, quando ad esempio viene chiesto alla vittima “ma perché frequentava gente simile?” o “Dove erano i suoi genitori”? o “Non è troppo piccola per uscire o per usare i Social o per truccarsi?”. Queste non sono domande, son sottili rimproveri che vanno ad aggiungersi ai sensi di colpa delle vittime.
Sono deduzioni falsate: prendiamo il caso di Palermo, la vittima era stata raggirata da un amico di cui era innamorata e di cui si fidava, lui invece probabilmente non ne era attratto, l’ha fatta violentare da altri sei amici, mentre lui il suo “amore platonico”, riprendeva col cellulare. Nei messaggi all’indomani dello stupro, gli stupratori sghignazzavano nelle chat: “Vuole farsi tutti…ecco, l’abbiamo accontentata…eravamo come cento cani sopra una gatta…cose che ho visto solo nei film porno”. Come si può pensare che una ragazzina (ubriaca, drogata o sobria che sia), possa scappare da 6/7 maschi affamati pronti a possederla in gruppo, come visto chissà quante volte in film per adulti?
Quando condividiamo dubbi sulle vittime, è chiaro che immaginiamo la realtà in base alla nostra esperienza. Condividiamo il nostro pensiero, in base alla nostra educazione, alla nostra scolarizzazione; menti chiuse o limitate che ignorano le tante sfaccettature della violenza, possono creare solo commenti chiusi, limitati e ignoranti.
Probabilmente un uomo che dice “se si vuole si evita” è un uomo che ha ricevuto qualche no e che quindi sa che non va sempre bene, che ci si può prendere un due di picche volenti o nolenti, ma quello che forse ignora, è che non tutti accettano un no. 4 milioni di uomini hanno avuto il coraggio di denunciare abusi e/o molestie, perché hanno provato su loro cosa significa; l’empatia però non si nutre solo di esperienza diretta ma anche di ascolto delle testimonianze, di chi ha vissuto situazioni diverse dalle nostre. Ascoltare prima di parlare con pregiudizi e stereotipi resta sempre la scelta più opportuna, quando si parla di abusi e non solo. (continua)
* Psicologa,
Tel. 3471814992
Aggiungi Commento