di Francesco Diana
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Alcuni anni fa, con un articolo dal titolo: “Cavalletta: Flagello delle campagne o alimento del futuro”, datato 01.06.2019, ripreso in seguito anche da una nota TV privata, trattammo dell’argomento “locusta” più come possibile alimento del futuro, analogamente a quanto succede fin dai nostri giorni in alcune aree del pianeta, che come parassita, devastatore dei campi coltivati.
Questa volta, ribadendo ancora la nostra totale repulsione verso l’utilizzazione della cavalletta come alimento completo del futuro, pur essendo noi altrettanto accaniti consumatori di lumache, che da altre parti rifiutano con sdegno, intendiamo incentrare il nostro intervento sulle devastazioni che lo sviluppo incontrollato delle locuste potrebbe causare alle nostre campagne, nel momento in cui una gran parte dei terreni risulta incolta per effetto della crisi determinata dalla nota globalizzazione dei mercati che ne rende antieconomica la coltivazione.
Quanto sopra, per meglio inquadrare l’entità e la gravità del fenomeno, riteniamo indispensabile riproporre, in breve sintesi, il ciclo riproduttivo del parassita, precisando che per “locusta” si deve intendere un tipo di “cavalletta” che ha la caratteristica di sciamare:
Le locuste che solitamente capita di vedere nelle nostre campagne, sono di due specie, scientificamente riconosciute come Calliptamus italicus e Diciostaurus maroccanus.
Il Calliptamus italicus, noto anche come “Grillastro italiano”, è facilmente riconoscibile per il colore rosa delle ali e per le tre macchie scure presenti nella parte interna dei femori posteriori, mente il Diciostaurus maroccanus, noto anche come “Cavalletta crociata”, si riconosce per la caratteristica “Croce di Sant’Andrea”, oltre che per la colorazione rossastra con macchie brune e ali posteriori incolori.
Entrambe le specie hanno una sola generazione l’anno. Le uova sono deposte in estate all’interno di cunicoli verticali scavati nel terreno (incolti in particolare), compattati e induriti grazie a un secreto dell’apparato genitale, denominati “Ooteche”, capaci di contenere fino a 30 uova ciascuna. Se si considera che ogni adulto può originare annualmente da 7 a 30 ooteche, si può facilmente dedurre che, nelle condizioni più favorevoli, ogni adulto può dare origine fino a un massimo di 900 nuovi soggetti/anno! La schiusa avviene intorno al mese di aprile e l’insetto adulto comincia a comparire nel successivo mese di maggio.
Le due specie evidenziano una fase solitaria e una gregaria, quest’ultima molto pericolosa per gli effetti dannosi che può causare alle coltivazioni. La temibile “Fase gregaria” ha in genere origine quando si verificano condizioni avverse di ordine ecologico, tali da mettere a repentaglio la sopravvivenza della specie. La Schistocera gregaria, che ha creato notevoli devastazioni in Africa e in Asia fin dalle epoche più remote, come documentato in alcune tombe Egizie del 2.300 a.C., è la specie più famelica di Acridide che in passato, sospinta dai venti favorevoli, ha raggiunto anche le regioni meridionali e insulari dell’Italia, causando ingenti danni alle coltivazioni.
Chi scrive è stato testimone dell’invasione avvenuta in alcune aree della Sardegna nei primi anni ’60, nel caso specifico nel territorio del Gerrei (Ballao), periodo in cui ha coordinato l’attività delle squadre preposte per l’esecuzione dei sistemi di lotta (Gammesano), consigliati dagli Organismi all’uopo preposti. Le folate degli sciami, che apparivano simili a nuvole basse di conformazione variabile come trascinate dal vento, si posavano improvvisamente sui prati naturali, per poi riprendere il volo dopo pochi minuti, lasciando il terreno spoglio da qualunque forma di vegetazione.
A decenni di distanza, complice la grave crisi che ha colpito il settore agricolo isolano per effetto della globalizzazione dei mercati, il conseguente abbandono dei terreni ha consentito di riprodurre lo scenario ideale per propagazione della specie, dando il la a progressive infestazioni, che a tutt’oggi interessano vaste aree del nuorese e minacciano di estendersi anche a nord dell’oristanese.
Come citato in precedenza, la mancata coltivazione dei terreni costituisce l’elemento principale che favorisce la diffusione del parassita, in virtù del fatto che la compattezza degli stessi garantisce la tenuta delle ooteche, e assicura il compimento del ciclo riproduttivo. Non bisogna infatti dimenticare che uno dei principali sistemi di lotta contro il dilagare dell’infestazione, in alternativa o ad integrazione di quella chimica, è costituito dagli interventi agronomici, quali appunto le ripetute lavorazioni al terreno, tese a distruggere le ooteche presenti e rendere meno agevole l’ovo deposizione della specie in parola.
Quanto esposto ci deve far riflettere sulla opportunità di riprendere l’attività agricola tradizionale, laddove le condizioni pedo-climatiche lo consentiranno. Ciò con la finalità di impedire il dilagare delle infestazioni di che trattasi e trovarsi anche nella condizione di doverle arginare con l’impiego di sostanze chimiche che inevitabilmente contribuirebbero a inquinare ulteriormente i suoli e, soprattutto, le falde acquifere.
Peraltro, le gravi conseguenze di carattere socio-economiche generate dal perdurare della pandemia, cui si aggiungeranno inevitabilmente quelle originate dai venti di guerra che soffiano impetuosi ai confini di casa nostra, fanno tornare alla mente le ristrettezze patite in conseguenza della seconda guerra mondiale che, Dio non voglia, potrebbero riproporsi in un futuro non molto lontano.
In quel deprecabile domani sarebbe più che mai utile, come nel passato in riferimento, avere i necessari beni di prima necessità che ci hanno dato la possibilità di sopravvivere utilizzando ciò che la terra era in grado di darci. Ciò senza ricorrere ai complicati calcoli in merito alla convenienza economica che, inevitabilmente, ci porterebbero a rivalutare l’invasione di locuste come un bene calato dal cielo per il soddisfacimento delle esigenze alimentari di un popolo, che peraltro le ha sempre rifiutate e combattute come piaga della natura stessa.
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