di Maurizio Onidi
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Non passa giorno che non si senta parlare delle Organizzazioni Non Governative (ONG), spesso e volentieri anche a sproposito se non con un preciso obiettivo: denigrare il loro operato. Abbiamo ancora negli occhi le immagini strazianti dei migranti recuperati in mare, nei mesi scorsi, dalle navi di queste organizzazioni umanitarie e tenute in rada senza che potessero sbarcare il loro “carico umano” per la nota vicenda della politica dei “porti chiusi” di salviniana memoria.
Si tratta di organizzazioni private, senza fine di lucro che riescono a svolgere le proprie meritorie attività dove le strutture governative non “riescono”.
Sono apolitiche, svolgono e perseguono attività di interesse e utilità sociale nel campo della cooperazione, dei diritti umani, della tutela dell’ambiente e tanto altro ancora.
I fondi ricevuti dalle organizzazioni, grazie a donazioni e contributi da parte di privati, vengono utilizzati per la realizzazione di progetti che hanno la loro esigenza primaria nel contesto in cui si realizzano, un ospedale piuttosto che una scuola e ovviamente per la retribuzione del personale che va precisato sceglie volontariamente di prestare la propria opera a favore di popolazioni bisognose, sacrificando mesi se non anni di lavoro come ci racconta Emanuele Fois, giovane architetto guspinese, che da alcuni anni opera per conto di MSF – Medici senza Frontiere al quale rivolgo la prima domanda come genitore:
Come hanno reagito i suoi genitori quando ha comunicato la volontà di entrare a far parte di una organizzazione umanitaria che come sappiamo spesso opera in contesti non proprio tranquilli?
Nel corso dei miei studi universitari, che mi hanno portato alla laurea a Cagliari in architettura, avevo già fatto esperienze fuori sede finalizzate a studiare contesti in cui lo sviluppo urbano è generato da dinamiche storico e socioeconomiche diverse dalle nostre. Inghilterra, Cambogia, Brasile, stage al quartier generale delle Nazioni Unite a Nairobi in Kenya sono state le mete dei miei viaggi di studio fin dal 2010. In famiglia se vogliamo erano abituati a vedermi con la valigia in mano. Alla continua ricerca di un’esperienza lavorativa in realtà diverse dalla nostra, nel 2016 non ho avuto esitazioni a entrare in contatto con Medici Senza Frontiere quando ho appreso che erano alla ricerca di altre figure professionali a parte quelle sanitarie. A gennaio del 2017 pertanto ho seguito due progetti in Ucraina, come manager per le costruzioni, con obiettivo quello di ristrutturare e adeguare alcune strutture sanitarie dedicate alla cura della Tubercolosi, alcune all’interno di centri detentivi. Da gennaio a ottobre del 2018 sono stato in Sierra Leone, dove a causa della malnutrizione è elevatissima la mortalità infantile, e dove ho seguito un progetto finalizzato all’assistenza materna e infantile nella nostra base situata nella foresta tropicale. Esperienza più complessa quella che ho fatto dal novembre 2018 ad agosto 2019 in Afghanistan dove stiamo costruendo un ospedale traumatologico che sostituirà il precedente, distrutto nel 2015 da un bombardamento americano durante il quale ci sono state tante vittime compresi alcuni colleghi MSF.
Cosa spinge un giovane ad abbracciare un’ attività come quella che lei ha svolto fino a oggi nel mondo delle organizzazioni non governative?
Rispondo che la mia è stata una scelta quasi naturale. Mi dà l’opportunità, dal punto di vista umano e professionale, di conoscere realtà con le quali diversamente non sarei potuto entrare in contatto. A tutto ciò mi sento di aggiungere che il fatto di operare direttamente sul campo ti consente di vedere l’esito immediato di ciò che hai realizzato e soprattutto ti privilegia nell’analizzare di persona fatti e situazioni che altrimenti arriverebbero sempre filtrati dai media o comunque per interposta persona. Bisogna conoscere tutti gli elementi che compongono lo scenario per poter esprimere una valutazione che spesso e volentieri arriva a noi distorta. A me ha dato e dà tanto ossigeno l’essere stato attivo in luoghi così diversi e lontani dalla nostra realtà.
No, perché l’organizzazione attua delle strategie che mirano a ridurre ogni forma di rischio. In Afghanistan, ad esempio, si opera in un paese in conflitto. Ogni contesto ha i suoi rischi e non solo dal punto di vista dell’incolumità fisica, ma anche della salute se si pensa all’epidemie che affliggono ogni giorno diversi paesi nel mondo. Devo dire di non essermi mai trovato in situazioni tali da avere paura anche se bisogna ammetterlo, la nostra è una vita a volte “confinata”, ma questo fa parte delle regole del gioco. L’organizzazione si basa sul principio dell’indipendenza, imparzialità e neutralità. In una situazione conflittuale operiamo in modo tale che venga mantenuta e garantita l’imparzialità tra le parti in causa che significa anche trovarsi a soccorrere in contemporanea feriti di entrambi gli schieramenti.
Quali sono i programmi per il futuro?
Gran bella domanda. Al futuro attualmente non ci penso troppo. Nell’immediato sento il desiderio di ripartire e di continuare a collaborare con MSF. Resta solo da capire quali siano le esigenze e i progetti in corso d’opera e quali le emergenze che potrebbero richiedere una figura professionale come la mia. Ripeto, da parte mia c’è la volontà di continuare questa straordinaria esperienza anche se in questo ultimo periodo si è scatenata una campagna politico/mediatica contro l’operato delle ONG; questo non fa venir meno, da parte degli operatori umanitari, l’impegno per contribuire al benessere degli abitanti di regioni afflitte da tanti problemi spesso legati alle politiche dei paesi occidentali.
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