di Alice Bandino*
_______________________________________

In passato abbiamo definito, in questa rubrica di psicologia, il comportamento pro sociale come l’insieme di azioni messe in atto con lo scopo di arrecare un beneficio ad altri individui, includendo sia comportamenti di altruismo (ovvero un aiuto che arreca vantaggio ad altri e non a se stessi ) che comportamenti d’aiuto (aiutare qualcuno a portare a termine qualcosa che da solo non riuscirebbe a concludere).
Per misurare l’intelligenza emotiva- sociale, Bar-On nel 1997 mise a punto l’EQ-i (Emotional Quotient Inventory), costruito sugli studi svolti nell’arco di quasi vent’anni e che ha coinvolto 85 mila persone di quattro diversi Continenti, tradotto in trenta lingue. Il questionario indaga le competenze su cinque dimensioni principali: intrapersonale, interpersonale, adattabilità, gestione dello stress e umore generale, ognuna di queste dimensioni ha poi delle specifiche sottodimensioni.
Per indagare la dimensione interpersonale, ci si riferisce alla capacità di essere consapevoli delle proprie emozioni, di comprenderle, apprezzando e riconoscendo anche le emozioni degli altri instaurando e mantenendo buone relazioni interpersonali, percependoli come rapporti interpersonali soddisfacenti.
Le sottoscale di questa dimensione sono tre: l’empatia, la responsabilità sociale e le relazioni interpersonali.
L’empatia è la competenza socio-emotiva per eccellenza, ovvero l’abilità di saper leggere le emozioni altrui, di capirle e accettarle; le persone empatiche si preoccupano per gli altri e mostrano interesse verso di loro. Al contrario, bassa maturità in empatia causa disinteresse per le problematiche altrui; la realtà dei fatti viene letta alla luce delle proprie emozioni, solo da un punto di vista personale, soggettivo, non obiettivo; non ci si mette nei panni degli altri e anche a livello umano, si è portati a reagire con cinismo, senza reale vicinanza; gli “altri” vengono visti come altro, diverso, strano, lontano.
La terza sottodimensione misura le relazioni interpersonali, ovvero vengono valutate le abilità nello stabilire e nel mantenere relazioni interpersonali soddisfacenti, la capacità di percepirsi a proprio agio in queste relazioni, avendo aspettative positive, proattive e resilienti verso il futuro, stabilendo rapporti affettivi significativi e stabili nel tempo.
La seconda sottodimensione è la responsabilità sociale (social responsability), e indaga e misura il grado in cui un soggetto è cooperativo, collaborativo e si sente parte del proprio gruppo sociale. Questo stile comporta il rispetto per le regole, l’attenzione verso gli altri, il non essere egoisti e a non perseguire interessi individualistici immediati a discapito del benessere della collettività.
La responsabilità sociale è definita anche come il riflesso di una preoccupazione/intenzione che si estende oltre i desideri, i bisogni o i guadagni personali (Gallay, 2006). È quindi intesa come un orientamento valoriale che motiva i comportamenti prosociali, morali e civici delle persone. Le relazioni con gli altri e un senso morale di cura e giustizia sono centrali in questa definizione di responsabilità sociale (Wray-Lake & Syvertsen, 2011).
In psicologia, la responsabilità sociale si sovrappone concettualmente a una serie di costrutti simili, come lo sviluppo morale, l’empatia, l’altruismo e i valori e comportamenti prosociali. La responsabilità implica il sentirsi responsabili delle proprie decisioni e azioni, affidabili verso gli altri e autorizzati ad agire sotto il proprio controllo. In quanto tali, le persone socialmente responsabili sono agenti attivi nel loro sviluppo, motivate nell’azione da dimensioni morali e prosociali.
Ma quando è utile questa competenza? Quando il territorio ha necessità di affinare l’intelligenza socio-emotiva e le sue competenze per migliorare il benessere di chi ci vive o opera in esso?
E’ importante sottolineare come i valori non sempre portino all’azione: numerosi ostacoli impediscono alle persone di agire secondo la responsabilità sociale, come vincoli di tempo, stress legato al soddisfacimento dei propri bisogni fondamentali, norme sociali che enfatizzano la concorrenza piuttosto che la preoccupazione per gli altri o la mancanza di opportunità. Gli esseri umani hanno infatti un bisogno fondamentale di appartenere a qualcosa “di più grande” di loro (Baumeister & Leary, 1995). Per questa stessa ragione, la responsabilità sociale è radicata nelle relazioni con gli altri, il che significa che le persone devono sentirsi connesse agli altri e vedersi come parte di un’entità più ampia affinché la loro responsabilità possa estendersi da sé stessi agli altri. Questa considerazione ha portato gli psicologi di comunità a valutare la responsabilità sociale come un elemento fondamentale nella definizione stessa di senso di comunità. Una Comunità è responsabile quando i principi morali di cura e giustizia vengono posti al centro di ogni azione, programmazione, iniziativa. Una comunità formata da persone socialmente responsabili sa distinguere diritti e doveri, non giustifica mai la violenza, sa valutare la differenza tra vittime e carnefici; sa prendersi cura dei soggetti fragili come i bambini, gli anziani, i disabili. Una comunità matura e giusta riesce a mediare i conflitti e a trovare soluzioni aprendosi al mondo, consapevoli che un giorno l’aiuto potrebbe essere per noi o i nostri cari, consapevoli che una comunità sana necessita della collaborazione di tutti. Tutti i cittadini possono incrementare un clima di collaborazione e aiuto; serve coraggio nell’esporsi e umiltà nel mettersi al servizio dei più vulnerabili, soprattutto bisogna sapere cosa fare.
Infine, il motto latino degli scout “Estote parati”, racchiude esattamente tutte queste competenze succitate: essere pronti nella mente e nel corpo a fare il proprio dovere, sapere riconoscere la “cosa giusta” da fare e farla con gioia. Sapere dunque cosa e come farla, pronti in ogni momento ad affrontare pericoli e difficoltà.
È infatti nel momento delle crisi che emerge “la vera maturità”, la coesione e la coerenza di una comunità: il saper aiutare chi necessita d’aiuto anche quando l’aiuto non viene richiesto per pudore, vergogna o senso di colpa.
Quando una Comunità non è in grado di proteggere i suoi cittadini, quando gli interessi di pochi calpestano i più fragili, quando le ingiustizie servono per coprire l’interesse di pochi contro i diritti di tutti, allora è una comunità “malata”, dove le persone non possono essere al sicuro, dove le ingiustizie vengono subite e non combattute.
Girarsi dall’altra parte davanti a un’ingiustizia o a un reato, pone diversi interrogativi: la paura di perdere eventuali privilegi nel combattere le ingiustizie, può essere combattuta? L’indifferenza può trasformarsi? Si, conoscere significa capire e capire significa non poter mai dire “non lo sapevo…non credevo…non pensavo…”
Fa parte della responsabilità sociale anche conoscere le criticità del proprio territorio, per risolverle, per aiutare chi sta male, così come la Legge non ammette ignoranza, non si può vivere senza consapevolezza di ciò che accade intorno a noi, senza tendere la mano a chi soffre e soprattutto confondendo vittime e carnefici.
In queste settimane, dopo la rubrica sulla pedofilia, ho sperimentato un senso di smarrimento totale: ho ricevuto impressioni da lettori comuni e da persone che avevano subito, su vari livelli, violenze ormai dimenticate; ho cercato con delicatezza di sensibilizzare sull’argomento per far sentire meno sole le vittime che non hanno voce, grazie anche alla responsabilità sociale insita nella redazione della Gazzetta del Medio Campidano che ospita dal Gennaio 2015 questa rubrica.
Eppure il mio smarrimento nasce proprio dal messaggio di una vittima di pedofilia, la quale dopo avermi sintetizzato la propria esperienza, conclude con un perentorio “…tanto non cambierà mai niente, nessuno ci crede, trattano le vittime come fossero malati e i carnefici come vittime …”
Ecco, non è vero, nessuna persona sana di mente potrebbe mai accusare un bambino o una bambina di “aver provocato sessualmente” un adulto; nessuna giustificazione sociale sulla precocità dei nostri minori moderni può mettere sullo stesso piano vittime e carnefici (la pedofilia non è una novità moderna); se un pedofilo riesce nel suo intento è perché Lui adulto (o Lei) riesce a creare una rete di protezione basata su bugie e stratagemmi per arrivare all’obiettivo finale; come un predatore sceglie soggetti fragili (bambini e adolescenti sono più vulnerabili e manipolabili di un adulto), adescandoli in maniera subdola, dopo averli conquistati attraverso strategie volte solo al proprio soddisfacimento personale.
È dunque dovere di ognuno di noi vigilare e difendere le vittime, per impedire che violenti senza scrupoli trovino terreno fertile per perpetrare violenze indisturbato, sempre consapevoli che risolvere problematiche attuali, previene lo sviluppo di problematiche future ancora più complesse. Negare l’evidenza ed evitare di parlarne va tutto a vantaggio dei carnefici, sempre. Non basta insegnare ai minori come non interagire con gli adulti; contemporaneamente serve spiegare agli adulti come riconoscere un adulto abusante, i segnali ambigui di pericolo che possono arrivarci anche solo per istinto, i segnali di richiesta d’aiuto e infine denunciare.
*psicologa
Tel. 347.1814992
Aggiungi Commento