di Antonello Piras
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Arbus, tra i suoi figli, conta non pochi personaggi tramandati alla storia locale, alcuni illustri come Pietro Leo e Raimondo Garau, dei quali tanto hanno scritto autori come Pasquale Tola, Giuseppe Vaquer e ai giorni nostri Aldo Piras. Altri meno analizzati, come l’atleta Mario Peddis, che Arbus ha voluto ricordare dedicandogli un impianto sportivo. Si ricordano pure personaggi negativi, come il bandito Raimondo Atzeni (Pabedha), ma pochi ricordano un personaggio un po’ “particolare”, nostro contemporaneo, scomparso nel 1987 all’età di sessantotto anni, che ha pubblicato alcune opere in poesia.
Il suo nome era Francesco Pani, lui però preferiva Atzedi e con questo cognome firmava le sue opere, ma tutti lo conoscevano con l’appellativo “Su Poeta” e poeta lo era davvero. Dimorava tutto l’anno alle pendici del monte Arcuentu, dove svolgeva l’attività di allevatore di capre e, poche volte durante l’anno, “scendeva” in paese per farsi tagliare i capelli, rivedere qualche amico del passato e visitare i bar dove, tra una malvasia e un cannonau, perdeva leggermente il senso dell’equilibrio, ma non della ragione, ed era in quei momenti che noi ragazzi, all’ora ventenni, lo stuzzicavamo per sentirlo declamare i versi di Omero e Dante.
Recitava a memoria lunghissimi tratti dell’Iliade e della Divina Commedia, parlava degli dei della mitologia greca e romana rendendoli, per noi giovani ignoranti, compagni di una sera trascorsa in allegria. Citava Orazio, Catullo e altri latini, componeva estemporanei sonetti rigorosamente in due quartine e due terzine. Discuteva coi giovani liceali che non riuscivano a tenergli testa, tanto era il suo sapere nell’arte dei versi. Attento critico e studioso della poesia moderna, tanto da dire: ”Oggi spacciano certa prosa per versi strampalati e matti, com’usano certi verseggiatori, e che sembra a loro che basti solo andar a capo a metà riga.”

Adombrato nelle sue opere viene fuori il personaggio, il carattere a tratti rude come nella critica politica, o dolce come nei versi dedicati alla madre, emergono sentimenti nobili, il concetto di Patria e Libertà, ma soprattutto l’amore per l’arte e la poesia.
Nel preludio all’opera “Della Libertà” pubblicata nel 1951 scrive: “L’arte si può fare e rifare in mille modi purché riesca ad una cosa sola, e cioè ad essere arte”. “La ragione vera per cui l’arte e la poesia non periranno mai è ch’esse sono tanto intimamente radicate nell’animo umano ed intrecciate agli umani sentimenti, esse non dipendono dallo svariar delle mode o dalle fortune, ma sono espressioni naturali e necessaire della vita, manifestazioni spontanee dell’ingegno e del cuore umano …”.
Tra il 1945/46 pubblica “L’Italia Liberata” e “Flora Sarda”, nella sua poesia tocca tutti i temi sociali della nostra terra: la morte nel lavoro in miniera, i duri lavori nei campi, l’oppressione dei tiranni sui miseri, la politica vaga e ambigua che porta al nulla.
“Su Poeta” è stato sicuramente personaggio bizzarro, fuori dagli schemi, tendenzialmente anarchico libero da pastoie. Ha lasciato agli arburesi le sue opere che andrebbero riprese e possedute per l’alto valore letterario e poetico.
Mi piace ricordarlo così, come l’ho conosciuto, coi capelli appena tagliati, la giacca di velluto e i calzoni grigi di fustagno, citando Omero e Dante, celebrando la poesia tra un verso e un bicchiere.
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