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L'ISOLA IN CUCINA

Friri sas sebadas esti un’atti sabidoria

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Roberto Loddi

Friggere è un’arte. Così scriveva “Jean Anthelme Brillat-Savarin” (1755 – 1826), avvocato, giudice, ufficiale dell’esercito, esule, professore di francese, musicista, politico e gastronomo francese, nel suo trattato “Phisiologie du gout” – Fisiologia del gusto, che nella sostanza è una miscela di piacevoli percezioni emotive e razionali, lucide meditazioni, sperimentazioni documentate, intelligenti consigli conditi con piacevoli ricordi.

La Fisiologia del gusto rispecchia la personalità, di un personaggio sicuramente competente in materia di arte gastronomica e allo stesso tempo fornisce una lettura da attento conoscitore della cucina borghese francese, nata nella prima metà del settecento, all’alba della rivelazione di un nuovo e inedito sapere culinario, che susciterà un sorprendente influsso sulla cultura gastronomica futura.

Friggere è la tecnica di preparazione dei cibi messi in relazione con un condimento unto e bollente posto in un tegame di ferro, il quale diffonde istantaneamente l’alta temperatura del grasso impiegato, facendo formare così la classica crosticina del cibo in superficie. Nel momento in cui si introduce il cibo, l’olio si sottopone a uno sbalzo termico che ne abbassa la gradazione, ecco perché quando si frigge è opportuno portare il grasso a una temperatura che varia dai 160° ai 180°, di conseguenza occorre prestare attenzione e conoscenza nell’utilizzo dell’olio o del grasso per friggere.

Sono da evitare gli oli con il punto di fumo più basso rispetto a quello indicato  nelle fritture, per esempio: l’olio di girasole raggiunge il punto di fumo a di 130°, l’olio di soia a 130 °, l’olio di mais s 160 °, il burro a 150°. Sono consigliati: l’olio di arachidi che raggiunge il punto di fumo a 180°, l’olio extravergine d’oliva a 210°, l’olio di cocco a 177°, il burro chiarificato a 250° e lo strutto a 250°, che è l’ideale per la frittura di parecchi cibi, in particolare per lo gnocco fritto, frappe, bugie, chiacchiere e altro ancora.

Lo strutto, che in Sardegna utilizzano oltre che per friggere, anche per preparare la pasta violata,  violada, la famosa pasta sfoglia isolana, da “violare” la pasta, dal latino “figulare”, arricchire la pasta con del grasso.

Questa procedura richiede un lavoro di amalgama degli ingredienti fino ad ottenere un impasto liscio ed omogeneo.

Il metodo utilizzato per friggere è quello praticato in tutte le culture della terra con antiche tradizioni, infatti gli egiziani utilizzavano il grasso vegetale, mentre nell’antica Roma friggevano con l’olio d’oliva e nelle “frictilie” si trovano analogie con le nostre frittelle di Carnevale. Ai tempi dei romani era facile trovare per le vie o nelle piazze degli ambulanti che con i loro banchetti vendevano cibi d’asporto e come racconta il poeta romano Marco Valerio Marziale, la vendita avveniva pure nei piccoli locali rionali “cauponae, tabernae et popinae”, nei quali i commercianti vendevano bevande fresche o vino caldo e idromele (acqua di Aron – Acquawussle o bevanda degli dei). Nelle tabernae venivano proposte ogni sorta di frittelle e salsicce, carne arrosto, sampsa di olive salsa da spalmare sul pane (sulle bancarelle se ne trovavano oltre venti qualità differenti) e pesci in salamoia o in scapece,  polpi, formaggi, dolci e frutta, proprio come avviene oggi con il nostro cibo di strada.

Marco Porcio Catone Tuscolo famoso come Catone il Censore  (234 a. C. – Roma, 149 a.C.), non era di origini patrizie, ciò nonostante grazie alla sua intelligenza riuscì ben presto a scalare i vertici della Roma Repubblicana, coprendo ruoli importanti. Fu strenue e tenace difensore della tradizione romana, con la preoccupazione di salvaguardare usi e costumi dell’antica Roma. Nel suo trattato, “De agri coltura” Catone illustra una serie di accorgimenti su come gestire il bilancio di famiglia, come curare la salute, come invecchiare bene e come educare le persone ad una sana alimentazione, lasciando un considerevole elenco di ricette di piatti poveri e rigorosamente preparati con i prodotti sani. Fra le tante, il “savillum”, una sorta di focaccia farcita con formaggio e miele, che ricorda molto da vicino le sebadas o seadas, sevadas, seattas della Sardegna.

La ricetta originale prevedeva: farina, formaggio ovino fresco, miele di castagno e uova, mentre quella moderna si discosta di poco. A secondo della zona il dolce prende nomi diversi, per esempio nel logudorese si chiamano sa seàda, in Campidano sebadas, nel nuorese sebàda, a Serule sabàda e seattas o sevadas nel Barbaricino, dove esiste un detto popolare che deriva dal termine dialettale:  séu, sébu, sebum, cioè sego, grasso, lucente, in quanto il dolce per via del ripieno risulta essere panciuto e lucente, proprio per l’impiego dello strutto o dell’olio utilizzati in frittua.

Un tempo le sebadas  erano i dolci tipici delle feste e venivano preparate in occasione della Pasqua o del Natale. I pastori per queste ricorrenze lasciavano gli ovili per tornare in famiglia e lavoravano il latte per preparare il pecorino da stagionare e con lo stesso formaggio ancora fresco di un paio di giorni di maturazione, non appena ottenuto il giusto grado di acidità lo impiegavano per la preparazione dei dolci. E in questo caso è proprio il formaggio… che fa la differenza!.

Ingredientis:

g 500 di semola fina di grano duro sardo, 1 bicchiere colmo di acqua, g 80 di strutto di maiale, g 500 di pecorino fresco, la buccia grattugiata di un limone giallo non trattato, 1 cucchiaino di polvere di bucce d’agrumi essiccate, g 25 di zucchero comune, g 150 di miele di castagno oppure di  corbezzolo o un’altro miele poco dolce. olio extravergine d’oliva o strutto per friggere quanto basta.

Approntadura:

friggere le seadas è un’arte di infinita sapienza, friri sas sebadas esti un’atti sabidoria. Per preparare la ricetta citata occorre procedere nel seguente modo: disponi a fontana la semola dentro a una conca di terracotta (scivedda, xivedda, civedda) e al centro tuffaci lo zucchero, poca acqua calda per volta e pian piano lo strutto. Fatto, amalgama tutti gli ingredienti fino a quando avrai ottenuto un impasto liscio e omogeneo, che lascerai riposare per mezz’ora. Nel mentre, poni il formaggio tritato in un recipiente insieme alla buccia di limone, la polvere d’agrumi (tante famiglie aggiungono al ripieno qualche cucchiaiata di abba ardente, fil’e ferru) e amalgamali quel tanto che basta per formare un impasto malleabile. Terminata questa operazione, con l’aiuto del matterello appiattisci sottilmente la pasta formando poi dei dischi di dieci – dodici centimetri di diametro (la forma e la grandezza del dolce va a gusti), quindi accomoda parte del ripieno di formaggio al centro di un disco, con un altro coprilo e col dorso della mano e la pressione delle dita sigillali perfettamente, facendo fuoriuscire l’eventuale aria incorporata, proseguendo in questo  modo sino al termine degli ingredienti. Arrivati a questo punto in un largo tegame, friggi le sebadas o seadas, sevadas, seattas poche per volta in abbondante strutto o olio  bollenti e man mano che risulteranno  dorate, scolale su dei fogli di carta assorbente da cucina a perdere il grasso in esubero.  Servile immediatamente cosparse con il miele preferito intiepidito. Vino consigliato: Vernaccia di Oristano liquoroso ben freddo, dal sapore fine, sottile, caldo con leggero retrogusto di mandorle amare.

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