di Francesco Zurru
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17 febbraio 1943: all’epoca Gonnosfanadiga contava circa 3.000 abitanti, gente laboriosa impegnata nell’agricoltura e nella pastorizia da cui traeva il necessario per il proprio sostentamento, favorita da un territorio fertile e ricco d’acqua.
Dopo 79 anni dal giorno in cui gli americani dalle loro potenti macchine da guerra sganciarono su Gonnosfanadiga un micidiale carico di bombe contro la popolazione civile, è ancora mistero sull’azione militare che causò la morte di 120 persone e circa 350 feriti, oltre naturalmente alla distruzione di numerosi edifici i cui segni oggi sono ancora visibili.
Monsignor Severino Tomasi allora parroco del paese nel suo diario descrisse dettagliatamente le fasi della sanguinosa incursione aerea: le cosiddette “fortezze volanti” si trasformarono però quasi subito in urla di dolore e pianto. Gonnosfanadiga conobbe in quel preciso momento la guerra nella maniera più vigliacca che un conflitto possa esprimere.
L’avvocato Raffaele Melis, sostiene che il bombardamento del 17 febbraio 1943, non fu un errore ma un’azione voluta con lo scopo di uccidere deliberatamente e senza pietà, a tal proposito ricorda il pastorello di 15 anni che perse la vita mentre ignaro sventolava la propria giacchetta in segno di saluto agli arei Americani. Secondo l’avvocato il bombardamento in Sardegna fu una strategia Americana, per nascondere il vero obbiettivo, lo sbarco in Sicilia, punto strategico per invadere l’Italia e poi l’Europa.
TESTIMONIANZA DI CATERINA UCCHEDDU

Era una bella serata, giocavamo in cortile con mia sorella Severa, ho chiesto a mia mamma di andare a casa delle sorelle Putzolu che abitavano nel vicinato e dove si riunivano tutti i bambini per giocare in un cortile dove convergevano anche ragazze più grandi come animatrici; nello stesso ambito c’erano anche degli animali da cortile. Mia mamma negò il permesso perché dovevo giocare con la mia sorella. Dopo tante insistenze, mia madre mi diede il permesso di andare dove desideravo, a condizione, però, che fossi rientrata subito. Mentre mi recavo presso i vicini, in strada trovai un pezzo di gesso, e, incuriosita, lo raccolsi e decisi di tornare a casa per far vedere a mia mamma ciò che avevo trovato. Mi misi, quindi, a giocare con mia sorella utilizzando il gesso che avevo appena trovato. A un certo punto, udii un frastuono assordante; si videro subito gli aerei che sbucavano da dietro le montagne. Sentii la vicina di casa Antonietta Sogus contare fino a nove e io capii subito che quel numero corrispondeva agli aerei che sorvolavano il cielo. Immediatamente la stessa persona urlò rivolta a mia madre: “Porti subito i bambini dentro casa, perché questi aerei non sono dei nostri”. Mia mamma ci prese per mano e ci portò dentro casa, chiuse la porta e quasi contemporaneamente tutti i vetri degli infissi della nostra abitazione andarono in frantumi. Noi, ignare, pensammo che quell’infrangersi fosse il risultato della forza usata dalla mamma nel chiudere la porta. Ci riparammo nel sottoscala e poco dopo entro nella nostra abitazione la zia Barbara sconvolte e piangente e riferì che erano morte le zie Raffaella e Giuannica. Subito dopo ci rendemmo conto che si trattava di bombe sganciate da arei, nella casa dove stavo andando morirono tutti, Annita, Nina, Gina e il piccolo Ilario Medda. Poco dopo mentre scapavamo in campagna vidi i militari che portavano via la salma di Nina, in una barella. Praticamente quel pezzo di gesso mi salvò la vita.
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