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ATTUALITÀ

Gonnosfanadiga, le testimonianze di Barbara Diana e Caterina Uccheddu sul bombardamento del 17 febbraio 1943

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di Gian Luigi Pittau
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Passano gli anni ma rimane vivo a Gonnosfanadiga il ricordo del tragico bombardamento del 17 febbraio 1943 che causò tantissime vittime oltre ai tanti feriti e che anche quest’anno sarà commemorato.

Barbara Diana

Nel paese del Monte Linas ci sono ancora diversi testimoni come Barbara Diana di Gonnosfanadiga, maestra e catechista, che alcuni anni fa ha raccontato a San Gavino Monreale con la voce rotta dall’emozione, con gli occhi e la delicatezza di una bambina l’orrore della guerra e del bombardamento del 17 febbraio 1943.

«Ragazzi, se volete che non ci siano più guerre anche in futuro dovete coltivare ogni giorno la pace. Ringrazio il Signore che ci ha permesso di vivere e di tornare all’interno dell’asilo. Se fossimo rimasti tutti nel cortile della scuola sarebbe stata una strage: eravamo in tutto più di 200».

Un racconto intenso e carico di emozione che ha fatto sentire agli studenti e ai docenti presenti tutto l’orrore della seconda guerra mondiale: «Quando Gonnosfanadiga venne bombardata – racconta Barbara Diana –  avevo sei anni, era una bellissima giornata di sole e mi trovavo all’asilo. Per fortuna, dopo il pranzo, la maestra ci fece rientrare dal cortile. Dopo pochi minuti una bomba cadde proprio nel posto in cui mi trovavo con altri trecento bambini».

Nessuno potrà mai dimenticare i terribili fatti del 17 febbraio 1943 che trasformarono il paese di Gonnosfanadiga in uno scenario dell’orrore tra sangue, urla, pianti, morte e disperazione.

Caterina Uccheddu

Significativa anche la testimonianza di Caterina Uccheddu: «Mi sono salvata dalle bombe grazie a un pezzo di gesso. Il 17 febbraio 1943 avevo appena 4 anni. Era un bel pomeriggio di sole e giocavo in cortile con mia sorellina Severa, convalescente dopo una lunga malattia. Chiesi a mia mamma di farmi andare a casa delle sorelle Putzolu, che abitavano nel vicinato dove ci riunivamo per giocare con gli altri bambini. Dopo tante insistenze mia mamma mi diede il permesso a condizione, però che rientrassi a breve. Mentre mi recavo presso i vicini, in piazzetta, trovai un pezzo di gesso e, incuriosita, lo raccolsi e decisi di tornare a casa per far vedere a mia mamma ciò che avevo trovato. Mi misi a disegnare sul pavimento utilizzando il gesso che avevo appena trovato. A un certo punto si udì un frastuono assordante e si videro aerei che sbucavano da dietro le nostre montagne. Sentì la vicina di casa, Antonietta, contare gli aerei, contò fino a nove e immediatamente urlò rivolgendosi a mia madre: «Porti subito le bambine dentro casa perché questi non sono nostri».

Via Porru Bonelli

Mia madre ci prese per mano e ci spinse dentro casa, e chiuse la porta. Contemporaneamente tutti i vetri degli infissi della nostra abitazione andarono in frantumi. Noi bambine pensammo che quel disastro fosse il risultato della forza usata da mamma nel chiudere la porta. Per proteggerci ci portò nel sottoscala. Poco dopo arrivò zia Barbara Martis sconvolta per ciò che aveva visto nel vicinato e urlando chiese a mamma di portare un bicchiere d’acqua a “tzia Giuannica” che, pur dilaniata dalle bombe, assieme alla madre “tzia Raffiella”, implorava un po’ d’acqua. Gli aerei, che prima ci avevano incuriosito, avevano colpito la casa della famiglia Muntoni – Sedda e della famiglia Putzolu, dove mi sarei dovuta trovare anch’io. Là infatti morirono le giovani padrone di casa, l’amica Gina Urraci e il piccolo Ilario Medda. Mentre scapavamo in campagna, in piazzetta, vidi un camion militare e i soldati che portavano via Nina in una barella. Praticamente quel pezzetto di gesso mi salvò la vita».

RIPRODUZIONE RISERVATA
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