di Maurizio Onidi
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Come tutti i racconti che si rispettano anche questo comincia con la tipica espressione “c’era una volta” il mercato, quello spazio in cui si manifestano e si ritrovano gli usi, i costumi e le consuetudini di una popolazione. Un autentico tripudio di colori, profumi e voci che animavano il vecchio mercato della cittadina mineraria, nella splendida cornice del centro cittadino proprio sotto la piazza XX Settembre, rimasto in attività fino agli anni ottanta. Una decina di piccole stanze “loggette” come venivano comunemente chiamate, dedicate alla frutta e verdura, una alla macelleria comunale mentre un locale molto piu ampio era destinato ai banchi del pesce.
Con l’aiuto di chi vi ha operato o comunque li ha vissuti quegli anni, abbiamo cercato di ricostruire alcuni momenti dell’attività di questo storico mercato partendo proprio dalla pescheria.
Elisa Steri


Gian Luigi Casula, 74 anni, figlio di Elisa Steri, pescivendola «Ho cominciato ad accompagnare mia madre al mercato che ero ancora bambino. Ricordo molto bene la struttura dell’ampio locale dove erano predisposti i banchi, cinque postazioni realizzate con strutture in tubo di ferro sul quale erano fissati dei piani inclinati in marmo bianco con delle scanalature per sgocciolare l’acqua. Alle prime luci dell’alba l’attività cominciava ad animarsi e le voci aumentavano con l’arrivo dei fornitori. Carretti che portavano la verdura e la frutta. Mi tornano in mente i blocchi di ghiaccio che venivano scaricati insieme alle cassette del pesce che ogni rivenditore predisponeva sul banco in bella mostra. Cominciava la vendita e con essa le grida nella loggetta del pesce dove le pescivendole la facevano da padrone nei confronti dei loro concorrenti uomini (Elisa, Sebastiana, Carmina, Ciccittu e Baroi ndr). I toni di voce erano alti per richiamare l’attenzione dei clienti che cominciavano ad affluire. Si scatenava la gara a decantare la freschezza e la bontà di quanto esposto e che data la tipologia di prodotto si prestava a infiniti doppi sensi senza scadere nella volgarità. Nonostante siano trascorsi parecchi anni, molti ricordano ancora gli sfottò tra mia madre che invitava i clienti ad avvicinarsi al suo banco per verificare la freschezza del suo prodotto, al quale rispondeva a tono, in dialetto Baroi Tiana decantando la bontà dei serri».
Baroi Tiana

«Di nostro padre», raccontano le figlie Caterina e Paola, due delle dieci figlie di Vitalia Piras e Salvatore “Baroi” Tiana «abbiamo dei bellissimi e teneri ricordi. La nostra famiglia definirla numerosa non basta, 17 gravidanze di mamma, tredici figli di cui tre maschi e dieci donne con la gioia di avere avuto con noi anche nostra nonna paterna. Nella nostra casa regnava l’allegria grazie anche alla serenità e alla forza di nostra madre oltre all’impegno costante di babbo, gran lavoratore, buono, molto generoso e disponibile con tutti». «Noi figli eravamo molto contenti quando rientrava a casa la sera perché aveva una parola per tutti. Molto attento alle esigenze della famiglia come quella volta, erano gli anni 60» precisa Paola «che tornò a casa con due macchine per lavare i panni. Erano quelle con la manovella tanto per intenderci. Per la gioia di noi figli acquistò’ uno dei primi televisori e da noi al pomeriggio venivano quelli del vicinato per assistere alle trasmissioni». «Ricordo perfettamente» prosegue Paola «che essendo tanti in famiglia, i piatti venivano lavati a turno da noi ragazze e che ognuno aveva un compito ben preciso. Acquistò un motocarro per trasportare la merce e d’estate con questo mezzo, sedute nel cassone ci portava al mare. Pur essendo analfabeta, fu uno dei primi patentati di Guspini».

«Abbiamo vissuto per molti anni a Montevecchio», commenta Caterina, «avendo nostro padre lavorato per tanti anni in miniera. Molto impegnato politicamente, comunista convinto, fu tra gli occupanti la miniera nello sciopero del 1961. Lasciata Montevecchio e il lavoro della miniera a causa della silicosi, per mantenere la famiglia si dedicò’ al commercio del pesce, ottenendo un banco al mercato comunale. Era molto attivo e gran lavoratore, si adattava a fare di tutto pur di portare il pane a casa». «Per le feste paesane», prosegue Caterina, «vendeva i pesci arrosto, attività nella quale collaborava anche nostro fratello Mario, recentemente scomparso. Come ha già avuto modo di raccontare Paola, anche noi figli davamo il nostro piccolo contributo nei lavori domestici e anche nell’attività del capo famiglia aiutandolo a preparare le acciughe sotto sale nelle cassette rotonde in legno come così pure nel frantumare i blocchi di ghiaccio che servivano per mantenere il pesce fresco in attesa di essere venduto, visto che non c’erano le celle frigorifere. Venne a mancare a cinquantasei anni a causa della silicosi contratta in miniera»
Sebastiana Caredda
Giuseppe Tiddia, figlio di Sebastiana, che racconta «La vita del mercato in quel periodo credo che in chi l’ha conosciuta, abbia lasciato dei ricordi incancellabili. Avevo 6/7 anni quando andavo con mio padre ad acquistare il pesce che poi mia madre rivendeva al mercato. In particolare mi tornano in mente i viaggi a Portoscuso per acquistare il tonno. Preciso che quello che compravamo era la parte superiore del tonno che veniva pescato in quella zona perché la parte più ricca di carne veniva acquistata e trasportata dalle aziende che nei loro stabilimenti lo confezionavano in scatolette. Al rientro a Guspini andavamo alla segheria di Massa e li nella sega circolare il pesce veniva sezionato a grandi tacche e ogni pezzo veniva legato stretto affinché non si sfaldasse durante la cottura che mia madre faceva nel forno a legna. Una volta cotto veniva avvolto nei rami del mirto e portato al mercato per essere venduto. La preparazione e la cottura richiedevano alcune ore per cui la vendita avveniva solitamente al pomeriggio. “Sa tunia”, così veniva chiamato il tonno in dialetto era un prodotto molto buono e atteso dalla clientela che quando il bando pubblico ne dava la notizia, correva al mercato per acquistarlo. Le peschiere di Cabras sono un altro ricordo di quelli anni, in particolare per le modalità di come si svolgeva l’acquisto del pesce. I commercianti di pesce sapevano che in determinati periodi riaprivano le peschiere e regolarmente si facevano trovare pronti. Prima che iniziasse la vendita i proprietari delle peschiera “spingevano” il pesce, soprattutto muggini, dal largo in un recinto, dove calavano una grande rete, ritirandola su dopo poco, da qui il nome “pescata” che mediamente si traduceva dai tre ai quattro quintali di pesce. Ogni acquirente, che fosse un pescivendolo o un grossista faceva l’acquisto di una o più “pescate” a seconda delle disponibilità finanziarie, pagando anticipatamente al sollevamento della rete Il prezzo concordato. La “pescata” era una modalità di vendita molto diffusa in quel periodo a Cabras e siccome appunto il pesce non veniva pesato, poteva capitare che, se eri fortunato riuscivi a portare a casa anche quattro quintali».
Lasciata la zona riservata alla pescheria, continuiamo a raccontare la storia del vecchio mercato, che come è stato già detto precedentemente, era ubicato nella zona sottostante la piazza XX settembre, alla quale si accedeva scendendo una larga scalinata in granito alla sinistra della piazza per chi guarda verso la parrocchia di San Nicolò oppure da una scalinata situata alla destra della chiesa per chi rivolge lo sguardo alla montagna di fronte, Monte Santa Margherita, dando le spalle alla parrocchia.
La loggetta di Peppino Porceddu

Ripercorriamo con l’aiuto di Bruna Porceddu, una simpatica, loquace, lucida e molto attiva nonna di ottantuno anni che ha lavorato in quel mercato dall’apertura alla chiusura «Ai primi anni 50 del secolo scorso, con l’obiettivo di sviluppare l’economia locale, l’amministrazione comunale assegna “le loggette” del neonato mercato comunale ad agricoltori locali affinché possano vendere i loro prodotti della terra alla popolazione. La richiesta di poter avere una postazione viene avanzata anche da mio padre, Peppino Porceddu che qualche tempo prima, a causa di una infezione contratta in miniera, non riconosciuta e curata per artrosi trasformatasi in cancrena, subì l’amputazione di entrambe le gambe costringendolo su una sedia a rotelle per il resto della sua vita. A fronte di tale menomazione le venne assegnata una misera pensione con la quale avrebbe dovuto sfamare una famiglia composta oltre che da mia madre, Peppina Steri, da dieci figli di cui sette femmine e tre maschi. La richiesta venne accolta e pertanto io che in quel momento avevo dieci anni e frequentavo la seconda elementare, venni destinata ad aiutare nella vendita abbandonando la frequenza scolastica». «Ricordo come fosse in questo momento» puntualizza Bruna Porceddu «che cominciammo a vendere mazzi di foglie di cavolfiori per i conigli coltivate da ortolani locali con i quali stipulammo dei contratti per la fornitura di verdura che ci portavano con i carretti. Ricordo anche i nomi di questi Ortolani, Peppino Serru e Luigino Atzori che ci davano una percentuale del venti per cento sulle verdure che vendavamo e che per accordo pagavamo a fine mese. Questa modalità di pagamento ci consentiva di avere disponibile anche se solo per un tempo limitato, di una somma che ci permetteva di ampliare il giro della merce, andando ad acquistare a Cagliari. Ogni quindici giorni mia madre con altre signore che vendevano al mercato, andavano in città con il signor Pusceddu che faceva il tassista, acquistavano principalmente frutta e verdura non presente nella nostra zona che poi veniva trasportata a Guspini dal signor Loru, proprietario di un camioncino. Per arrotondare le entrate, mia madre faceva i torroni e altri dolci sardi che vendeva in occasione delle feste insieme alle nocciole, ceci e pistacchi, posizionando un banchetto proprio di fronte alla nostra rivendita. Intanto a dare una mano nella vendita arriva anche mia sorella più piccola Iolanda. Ricordo con piacere quando, in occasione della preparazione delle mandorle per la tostatura nel forno a legna, trattandosi di un lavoro molto lungo, nel nostro cortile venivano invitate a collaborare a questa operazione tutte le ragazze del vicinato trasformando questo lavoro in una grande festa dove si rideva e scherzava tanto. Nel 1970 nostro padre venne a mancare e subentrai io nell’attività, cambiando più volte il punto vendita anche a seguito della chiusura del vecchio mercato comunale per ristrutturazione. Nel 2000 ho smesso di lavorare, lasciando la prosecuzione ai figli».
Si ricorda chi fossero gli altri rivenditori nelle “loggette” comunali?
«Certamente. Subito dopo la pescheria c’era quella di Vitalia Lampis, a fianco la nostra e subito dopo quella di Eugenio Dessì, a fianco c’era Giovanni Fanari, questa loggette era chiamata anche “Orto dei poveri”, subito dopo Iolanda Zurru, quella successiva era di Murru e l’ultima era la macelleria comunale».
La Pescheria di Virgilio Serra
Collegato al mercato del pesce di quel periodo, vuoi anche per la vicinanza del locale, c’era anche la pescheria di Virgilio Serra, un uomo versatile, intraprendente e gioviale come racconta la figlia Gianna, titolare dell’attività creata da suo padre e nella quale collabora da sempre la mamma, per tutti “tzia Efisina” una arzilla ultra ottantenne molto oculata nella gestione dell’economia familiare.
«Dopo la chiusura della locanda di Marceddì, di proprietà dei miei nonni materni, nella quale lavoravano, nel marzo del ’64 i miei genitori decisero di aprire una pescheria a Guspini. All’inizio presero in affitto una stanza che si affacciava sulla via S. Maria per trasferirsi da lì a poco in un locale di via Pisacane, proprio a ridosso del mercato comunale dove svolsero l’attività fino al 1986, per traslocare definitivamente nello stesso anno nella nuova sede, di proprietà della famiglia in via Garibaldi, costruita appositamente per l’attività commerciale.
Come spesso succede, l’inizio di qualsiasi attività non è facile. Nel ’69 la diocesi ci mise a disposizione uno stabile a Marceddì, un vecchio rudere che abbiamo ristrutturato e adattato per le nostre esigenze commerciali. Quindi, aiutati economicamente e fisicamente da alcuni amici, cominciammo ad acquistare il prodotto direttamente dai pescatori locali e dal ’73 anche alcune cooperative iniziarono a portarci il loro pescato. Intanto sia io che mio fratello Aldo cominciammo a inserirci nell’azienda familiare per prendere definitivamente le redini in mano quando nell’ottobre dell’87 venne a mancare il capo famiglia. Ancora oggi la nostra è un’attività a conduzione familiare dove Aldo gestisce la pescheria di Terralba e si occupa degli acquisti di prodotti che provengono, per la maggior parte da Marceddì o comunque dalla costa occidentale dell’isola e in minima parte dal mercato ittico di Cagliari».

Ha qualche aneddoto da raccontare?
«Si uno in particolare che ogni volta che mi torna in mente mi viene ancora da sorridere. Avrò avuto una decina d’anni quando una mattina ero in pescheria con mio padre e ad un certo punto entra una signora che incuriosita nel vedere i “Bocconi” (murici) cominciò a fare domande su come si cucinassero. Mio padre che aveva sempre la battuta pronta, in tono semiserio diede alla cliente le indicazioni “metta una pentola con acqua abbondante, aggiunga una manciata di sale e faccia bollire fino a che sono cotti”, la signora perplessa incalzò mio padre chiedendogli “e come faccio a capire quando sono cotti” “semplice”, rispose mio padre, “prende una forchetta e li punge, quando si infilzano vuol dire che sono pronti”. Il giorno successivo la cliente torna in negozio abbastanza adirata, lamentandosi che pur avendo seguito le sue istruzioni, dopo molte ore di cottura i bocconi erano rimasti ancora molto duri, cosa abbasta ovvia visto che la signora prendendo alla lettera le indicazioni di mio padre, pungeva la conchiglia».
Questo racconto sta per concludersi e non è dato sapere se “vissero felici e contenti” ma niente e nessuno potrà mai negare che dietro ai loro banchi, come i grandi attori della commedia dell’arte, hanno saputo interpretare perfettamente, i ruoli che li hanno resi famosi e che ancora oggi vengono ricordati con simpatia da chi li ha conosciuti.
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