di Maurizio Onidi
foto di Cristiana Braina
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«La storia è vissuta per tanto tempo nella mia mente e non voglio offrire l’immagine di me, ma offro me stessa, perché attraverso quei luoghi e quei volti scomparsi, non vadano perduti i valori fondanti, consapevoli o no, di un canto di terra, o il silenzio di uno sguardo, che racconta la quotidianità di un rifiuto. A otto mesi la perdita della madre è sempre un evento prematuro, se non innaturale. Non ricordo nulla di quella separazione. È come se il tempo si fosse fermato, il mio corpo avesse respirato per debito di gratitudine e la forza vitale fosse un progetto di crescita sconosciuto. Anche il seme, quando cade dall’albero, trova la terra madre ad accoglierlo, come giustizia di ricompensa. E se la giustizia deve avere un corso, allora dev’esserci continuità»
Già dalla lettura delle prime pagine del libro”Un’infanzia negata” emerge delicata ma con straordinaria determinazione “la mano” di Petulia Surchin, pseudonimo con il quale Franca Nurchis, insegnante a riposo, pittrice e autrice di varie collane di poesie, firma il suo racconto autobiografico che «È la storia di una vita rovinata dalla guerra e vuole mostrare gli effetti devastanti di un abbandono e ciò che succede quando qualcosa finisce per sempre». Bastano ancora poche righe per far esplodere nell’autrice, la voglia di liberarsi di questo enorme dolore, soffocato per tanti anni, quasi a volerlo condividere con il lettore, prendendolo per mano e accompagnarlo in questo tortuoso e sofferto viaggio.
Senza voler raccontare troppi particolari del racconto e senza perdere mai di vista l’immenso dramma messo a fuoco, colpisce la straordinaria descrizione fatta degli anni dell’infanzia vissuta nella “Grande Casa” della zia materna, Lucia, che si prende cura di lei quando rimane orfana, in quel di Guspini, prima del suo “forzato” rientro nella casa paterna, a Cagliari, al termine delle scuole elementari. Spasmodica la ricerca di altre persone che l’accettassero e il “godimento consolatorio che allarga l’anima, crea armonia, di quando pettinavo le ciocche d’argento della zia, e sul viso disordinato delle rughe, cercavo il suo sorriso buono per un fragrante incontro d’affetto. Oh! santo cielo, quel profumo io non l’ho mai dimenticato”. La mano dell’artista regala ancora una volta una lunga serie di quadri che vanno dalla descrizione del tavolo imbandito per il pranzo domenicale con il profumo della carne che inondava tutto l’ambiente, al clangore del carro a buoi del vicino di casa, quando a sera rientrava dalla campagna, gli animali nel giardino, i colori e i profumi dei fiori primaverili e ancora i giochi in strada con le vicine di casa e le compagne di scuola.

Fra le tante amiche, raccontiamo le testimonianze di Iride Peis, tanti anni d’insegnamento alle spalle, autrice di numerosi libri sulle donne di miniera, che con Franca Nurchis ha condiviso quel periodo guspinese «Ho ricordi vivissimi di quel tempo, ma il libro di Franca mi ha riportato alla memoria emozioni sopite, eventi impolverati, nomi, volti di tante persone che non sono più fra noi ma che hanno lasciato tracce» Franca è l’amica di sempre, di ieri, di oggi e di domani e quando l’amicizia dura decenni, è davvero per sempre. Più preziosa di un diamante. Un dono della vita. Se mi guardo indietro, la rivedo nel cortile dell’asilo delle suore salesiane, in un grande girotondo con Gianfranca Cirina, Mariella Murgia, Rina Arixi, Maria Luigia Pusceddu, Edda e Marisa Meloni, Elena Pintor, Egle Matta, Adriana Ruggeri, Rosaria Cadelano, Sandra Poddighe, Antonietta Raccis, Teresa e Maria Bruna Muru, Gisella Garau o sull’altalena che pendeva dal grande albero di acacia, volare in alto con gridolini strozzati.
Tornano alla mente, le recite con suor Lina Argiolas, che pretendeva tutte le battute a memoria senza cantilene. Era sempre presente con il gioco dei tamburelli, dei cerchietti e soprattutto cantava e recitava. Ricordo ancora la voce di mia madre, che l’accoglieva, quando veniva a trovarmi a casa “Vieni Francolina, oh! Francolina come sei carina”. Carina era davvero, con la gonnellina blu a pieghe, il maglioncino bianco candido, col collo a lupetto, scarpe lucide e calzini intonati. Alta, slanciata, portamento elegante, discreta, educata, mai una parola in avanzo. Anche la melanconia dei suoi occhi, la distingueva dalle altre. Allora non sapevo cosa nascondessero, ma a me piacevano tanto. La sua risata contenuta ma spontanea, un po’ gutturale, piacevole, era un’altra caratteristica» sottolinea Iride Peis che riprende «Ricordo la casa di zia Lucia, l’ingresso, sempre in penombra, ordinato, con le tendine alla porta, sul tavolo centrini perfettamente stirati, le sedie intorno, la cucina linda e il bel cortile con vasi di fiori e la piantina della marialuisa, “sa tuedda” del prezzemolo e del basilico, le belle piante da frutto. Franca, nel suo racconto, la chiama la “Grande Casa”, è desiderio di famiglia, di amore. Peccato che in quella gran bella casa non ci fosse un gioco, una fune per saltare, i cerchietti, una bambola… io non ne ricordo uno. Non c’era neanche chiasso in quella casa, né risate, ne rimbrotti. Si parlava a bassa voce come fossimo in chiesa. Una casa di soli adulti, seri, che mettevano in soggezione. Ogni volta che varcavo quella soglia, mi sentivo a disagio. La zia Lucia ci riservava qualche tenero sorriso nel chiedere notizie delle nostre mamme. Tutti noi sapevamo che Franca aveva perduto la mamma Eleonora, in tenera età, durante un bombardamento a Cagliari. Non sapevamo che le mancasse tanto perché era una bambina serena, tranquilla, come mi ricordava Gianfranca Cirina, ripercorrendo queste tappe. La zia Lucia fungeva da madre perché era la sua parente più stretta inquanto sorella della madre di Franca, altro non ci era dato sapere. Trascorremmo tanto bel tempo insieme, tante passeggiate, tante processioni e tante risate. Con la conclusione delle elementari è finita anche la nostra infanzia. Apprendere che sarebbe tornata a Cagliari, per studiare, ci causò molta sorpresa e dolore. Tornava dal padre, era giusto così. Il nostro gruppo perdeva un pezzo importante. Non ricordo come avvenne il distacco, il saluto, l’arrivederci. Restò solo un grande vuoto e come dice nel libro “Fu un taglio di coltello atroce” anche per noi, le sue amiche. Ciò che è stato il travaglio interiore, nel primo decennio della sua vita e ciò che successe dopo, l’ho dolorosamente appreso dal libro. Ho letto più volte alcune pagine e sono rimasta spesso in apnea con un groppo alla gola».
In conclusione ancora una dichiarazione dell’autrice di “Un’infanzia negata”. «Ringrazio il cielo per avermi dato l’opportunità, nel corso della mia attività di insegnante, di essere stata di aiuto a bambini con disabilità». Una sorta di compensazione? Verrebbe da dire di si se è vero che la vita toglie ma ogni tanto sa anche dare.
Il libro di Franca Nurchis, per il dramma vissuto e raccontato non può non riportarci a quanto sta accadendo a poche migliaia di chilometri da casa nostra, nella martoriata Ucraina dove, chissà, quante “Infanzie negate” si sono già vissute e quanto ancora se ne vivranno se non si pone fine a questa cruenta guerra che lascerà solo morte, distruzione e tanto dolore nelle popolazioni.
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