di Gianpiero Mura
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Nel Sud della Sardegna ancora oggi viene tramandata oralmente una preghiera che molti pensano sia stata scritta in onore di San Martino, ma, come vedremo, così non è. L’errore è da imputare al fatto che la pregadoria in questione è in parte scritta in suspu, un gergo sibillino con cui in Sardegna ci si esprimeva per metafore, non più compreso oggi dalla maggioranza dei sardi. Nel Seicento questo gergo era ancora molto in voga anche tra le persone colte: ne è una straordinaria testimonianza la poesia “No neret tabur quie portat isprones”, facente parte del Canzoniere Ispano-Sardo conservato presso la Biblioteca Braidense di Milano(1). E lo era anche nel Settecento e nell’Ottocento: Quartucciu, ad esempio, era un centro in cui si praticava nella sua forma più alta il cantare in suspu, se pensiamo a poeti del calibro di Chiccheddu Olata (al secolo Francesco De Planu 1767-1833) e della sua contemporanea Bittiredda (Maria Itria) Melis, della quale non si conoscono le date di nascita e di morte. Oggi sono rimasti pochissimi is affressadoris (i poeti estemporanei) che ancora lo usano, e quasi nessuno lo parla più quotidianamente. Il loro modo di cantare, diversamente da quello comprensibilissimo usato dai cantadores del resto dell’isola, a tratti diventa ermetico, criptico, di grande complessità espressiva. Si rifà, per l’appunto, all’antico gergo usato dei sardi per non farsi comprendere dai dominatori di turno o per inviare un messaggio a chi ha orecchie per intendere.
L’incipit della preghiera in questione, scritto proprio in quel gergo, così recita: “Chi ses martinu, de is paraulas mannas naramindi una: unu est su soli, chi luxit prus de sa luna!”. Ad un lettore che ha dimestichezza con il suspu, risulta subito evidente che martinu non sta ad indicare “San Martino” come oggi pensano in tanti, bensì “seguace di Marte”, “pagano”. Ma veniamo alla traduzione. Il chi iniziale va tradotto con “se”, giacché nella variante campidanese della lingua sarda quella congiunzione italiana si può tradurre indifferentemente con “si” o con “chi”. Il verbo naramindi, invece, va inteso qui come un ammonimento, traducibile con “tienine a mente” (non sorprenda la cosa, visto che nel suspu sono talvolta presenti anche inversioni sillabiche e verbi usati col significato contrario). Il termine in latino popolare paraula – rimasto tale e quale nelle lingue sarda e catalana – è invece usato qui col significato comparativo originario del vocabolo tardolatino parabola. Infine, per la comprensione della bellissima metafora: “unu est su soli, chi luxit prus de sa luna!”, bisogna tener presente che il sole, nella simbologia cristiana, allude a Dio e a Cristo (Sole di giustizia), mentre in quella pagana la luna allude alla dea Diana, la signora della luna. Pertanto, la traduzione dal suspu dei primi versi della pregadoria in questione deve ritenersi la seguente: “Se sei pagano, delle parabole importanti tienine a mente una: c’è un solo Dio, che è più potente delle divinità pagane!”. La prima paraula, pertanto, è dedicata a Dio (con uno strale lanciato contro la dea protettrice delle donne, il cui culto era stato il più duro a morire). La preghiera prosegue quindi con altre undici paraulas comprensibilissime, facenti sempre riferimento ad un numero collegato ad altri principi fondamentali del cristianesimo tratti dalla Bibbia cristiana, a Gesù, ai santi e alla liturgia. Per concludere con il tredici, associato al demonio. Considerato che l’autore inizialmente si scaglia contro la dea Diana, è lecito pensare che accosti il numero del diavolo alla celebrazione più importante e solenne delle Feriae Augusti, quella dedicata alla divinità trina Diana, che cadeva proprio in quel giorno; non va dimenticato, che uno dei compiti del clero di allora era anche quello di sradicare le vecchie credenze pagane.
La data che possa indicare quando venne scritta la preghiera non è purtroppo reperibile da nessun documento; considerato però lo strale iniziale lanciato contro la dea Diana, e che è completamente priva di spagnolismi o italianismi, si potrebbe ipotizzare che risalga al basso Medioevo. Oggi essa è conosciuta come “Is doxi brebus de Santu Martinu” e i versi finali vengono pronunciati per scacciare le presenze demoniache.
Is paraulas mannas
Chi ses martinu, de is paraulas mannas naramindi una:
Unu est su soli, chi luxit prus de sa luna!
Chi ses martinu, de is paraulas mannas naramindi duas:
Duas funt is tellas chi Mosei
iat arreccìu de su Segnori
cun is cumandamentus de sa lei,
in su monti de Sinai,
e chi luxi iat fattu a su Mundu.
(di seguito va ripetuta anche la precedente paraula)
Chi ses martinu, de is paraulas mannas naramindi tres:
Tres funt is tres Marias.
(di seguito vanno ripetute anche le due precedenti paraulas)
Chi ses martinu, de is paraulas mannas naramindi cuatturu:
Cuatturu funt is cuatturu evangelistas.
(di seguito vanno ripetute anche le tre precedenti paraulas)
Chi ses martinu, de is paraulas mannas naramindi cincu:
Cincu funt is cincu liagas.
(di seguito vanno ripetute anche le quattro precedenti paraulas)
Chi ses martinu, de is paraulas mannas naramindi ses:
Ses funt is ses cereus.
(di seguito vanno ripetute anche le cinque precedenti paraulas)
Chi ses martinu, de is paraulas mannas naramindi setti:
Setti funt is setti donus.
(di seguito vanno ripetute anche le sei precedenti paraulas)
Chi ses martinu, de is paraulas mannas naramindi ottu:
Ottu funt is ottu paramentus.
(di seguito vanno ripetute anche le sette precedenti paraulas)
Chi ses martinu, de is paraulas mannas naramindi noi:
Noi funt is noi corus.
(di seguito vanno ripetute anche le otto precedenti paraulas)
Chi ses martinu, de is paraulas mannas naramindi dexi:
Dexi funt is dexi cumandamentus.
(di seguito vanno ripetute anche le nove precedenti paraulas)
Chi ses martinu, de is paraulas mannas naramindi undixi:
Undixi funt is undixi virginis. (2)
(di seguito vanno ripetute anche le dieci precedenti paraulas)
Chi ses martinu, de is paraulas mannas naramindi doxi:
Doxi funt is doxi apostulus.
(di seguito vanno ripetute anche le undici precedenti paraulas)
Trexi: no est lecitu e no ‘nc’est lei;
bai foras de mei, in mari chena ‘e fundu;
torra a s’Inferru e lassa stai su Mundu!
(1) Al riguardo si veda il libro di Tonino Paba: “Canzoniere Ispano-Sardo”, CUEC Editrice, 1996
(2) In alcuni paesi del Sud Sardegna viene riportato undicimila, come erroneamente si era creduto che fossero le compagne di Sant’Orsola martirizzate a Colonia. I nove cori, invece, sono quelli angelici: fu proprio nel Medioevo che furono chiamati così i differenti ordini degli angeli. Gli otto paramenti, invece, si riferiscono ai colori liturgici: verde, viola, rosaceo, bianco, oro, rosso, nero e azzurro.
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Ho superato gli ottanta e ricordo che mia mamma (Gonnosnò/Assolo) mi recitava spesso questa preghiera.
Grazie per avermela ricordata.