di don Giorgio Lisci*
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La XXXI Giornata Mondiale del Malato pare offrire, attraverso le parole di Papa Francesco, uno squarcio di speranza nel tenebroso mondo della Sanità Nazionale ma, in modo particolare, nella Sanità Sarda. Lo slogan espresso dal Santo Padre, prenditi cura di lui, espressione che ritroviamo nella parabola del buon Samaritano, richiama ciascuno a farsi prossimo nel cammino della vita, farsi prossimo di ciascuno, non importa se conosciuto, parente o amico, l’amore cristiano ti chiede di stare accanto a chiunque abbia bisogno, questa attenzione deve divenire possibilmente contagiosa. Come il Samaritano ha il coraggio di chinarsi sul mal capitato, diversamente dal Levita e dal Sacerdote, così ciascuno deve sentire l’anelito della pietas e caricarsi di chi è caduto in disgrazia, trovando la forza di coinvolgere chi incontra lungo il cammino della prossimità, come il Samaritano con l’albergatore.
La giornata, fin dal suo sorgere ha voluto creare una finestra su questo particolare mondo assai complesso e problematico, è il tentativo, nato con San Giovanni Paolo II di rimettere al centro la parte fragile della nostra società, scongiurando la tentazione di creare sacche di solitudine ed emarginazione. Il Papa incastona questa giornata all’interno del cammino sinodale e afferma che solo nel camminare insieme si ha la possibilità di accorgersi delle fragilità altrui, si capiscono i tempi del percorso e ci si può rendere conto di cosa sia necessario, talvolta occorre aspettarsi, sostenersi, riposare, aumentare il passo, l’importante è arrivare insieme al traguardo della vita. Prendersi cura dell’altro è un impegno non facile ma non impossibile, chi decide per questo percorso, decide di amare e di servire, di accogliere, di non aver paura di mettere le mani nelle ferite dei nostri fratelli e soprattutto si rende autore di un’azione di Chiesa che sempre è chiamata ad asciugare le lacrime del dolore e fasciare le ferite del corpo e dello spirito, dopo aver versato su di esse il vino della purificazione e l’olio della santificazione. In una società malata di economia e sempre tentata dalle cose effimere, rischia seriamente di innescare la politica dello scarto e quindi di eliminare tutto ciò che non è produttivo o capace di creare ricchezza, ma ciò che maggiormente rattrista è pensare al profondo egoismo che un certo stile di vita continua a mettere in primo piano.
Troppo spesso ancora le comunità cristiane collocano ai margini della loro azione pastorale l’attenzione verso i malati, le persone sole ed emarginate, tutto nell’attività della Chiesa è importante ma se andiamo a rileggere i testi sacri, non possiamo non concordare sul fatto che al centro della vita pubblica di Gesù, oltre all’annuncio troviamo sempre un azione di guarigione, anzi spesso sono legate da un nodo difficile da sciogliere, infatti quando qualche malato si accosta a Lui e chiede la guarigione, Gesù risponde sia fatto secondo la tua fede.
La malattia fa parte della nostra esperienza umana, dice il Papa, ma può diventare disumana se è vissuta nell’isolamento e nell’abbandono, sia nei luoghi di cura sia nella famiglia e nella comunità cristiana. Quest’ultima riflessione del Papa, che cito volentieri, mi porta a formulare un’analisi circa la situazione del nostro territorio. Già da qualche tempo sta cadendo l’idea che alcune organizzazioni sanitarie siano delle eccellenze, ad esempio la sanità Lombarda, citata troppo facilmente come modello o quella Piemontese e Veneta, mentre vengono indicate come cattivi esempi le gestioni sanitarie del Sud. Tutti sappiamo che la Sanità è sotto la responsabilità delle Regioni, quindi abbiamo diversi modelli che chi più chi meno cerca di far fronte al bisogno del proprio territorio, fa eccezione solo la Calabria che ormai da tempi remoti vive uno stato di commissariamento e quindi dipende direttamente dal Governo Nazionale. Fatto questo inciso, riportiamo il nostro sguardo alla nostra amata Sardegna, cambiano i governi, cambiano gli assessori ma la situazione pare destinata a rimanere in stallo, sempre più spesso giungono lamentele denunciando veri e propri disagi, sono molti ma oserei dire ormai troppi, i paesi o le cittadine prive di un medico di base, l’ultima soluzione trovata sa di ridicolo, perché decidere di aumentare il numero dei pazienti da 1500 a 1800, per tamponare le esigenze del territorio, altro non è che rifiutarsi di sburocratizzare l’iter di assunzioni, che porterebbe con maggiore facilità a fornire risposte serie e concrete, offrire al paziente e al medico stesso il giusto tempo, atto a curare e a conoscere le reali situazioni mediche delle persone che prende in carico.
Se questa è la situazione a livello territoriale non possiamo certamente esultare per quanto riguarda lo stato in cui versano gli ospedali e le case di cura, la carenza di personale specialistico, infermieristico e socio sanitario fa acqua un po’ da tutte le parti e sta lentamente decretando la chiusura di alcuni reparti, declassando le eccellenze che era presenti fino a qualche anno fa. Mi permetto di citare solo alcuni esempi, giusto per farci una idea della situazione, i pronto soccorso sono al collasso, alcuni aprono e chiudono a singhiozzo, alcuni reparti ricorrono a servizi offerti da medici provenienti da altre aree, non riescono a garantire le visite degli esterni, le prenotazioni stanno diventando delle chimere. Chi purtroppo per urgenze è costretto a recarsi in ospedale, si trova a dover vivere delle vere odisse, già per trovare un letto, se poi ho necessità di un intervento e mancano gli operatori specializzati come anestesisti, chirurghi o ortopedici la situazione diventa insostenibile. Tutto lo si sta delegando al privato, dove se non si hanno i soldi per curarsi, sono molti quelli che vi rinunciano o che si rivolgono alle comunità cristiane, alla pastorale della salute e alla Caritas, per ricevere degli aiuti ed essere sostenuti in queste situazioni che stanno diventando drammatiche.
Come Chiesa nonostante siamo disposti e disponibili a venire incontro a quelle che sono le esigenze delle persone, occorre ribadire che non possiamo sostituirci a quelli che sono i compiti delle istituzioni e della politica. È vero che esistono medici che fanno il loro lavoro per vocazione e per tanto si rendono disponibili a venire incontro con non pochi sacrifici ai loro pazienti ma, è altrettanto vero che stiamo assistendo anche a una situazione che porta molti nuovi medici a fare delle scelte di convenienza e di portafoglio, senza voler puntare il dito contro nessuno e senza voler fare di tutta l’erba un fascio, anche perché purtroppo la situazione che si è creata e le condizioni che sono state adottate portano alla scelta di preferire di svolgere il proprio mestiere, come medico a gettone.
Cosa si intende con il termine medico a gettone? È un servizio che viene reso a chiamata, cioè, io ho bisogno di un chirurgo? Chiamo Tizio, Caio o Sempronio, il primo disponibile gli pago la prestazione ma non è in organico, queste prestazioni che sono orarie arrivano a raggiungere un quantum più o meno pari al personale assunto con regolare contratto, responsabilità, orari e turni da rispettare, allora mi chiedo dov’è il risparmio o la programmazione perché chi ha bisogno possa trovare risposte per le sue esigenze? Sarebbe molto più semplice sviluppare un investimento che mi porti ad avere un’azienda, perché così viene chiamata e gestita la Sanità pubblica, con l’assunzione di personale specializzato e in numero adeguato, capace di dare risposte e soluzioni ai bisogni delle persone. Sarebbe infantile chiudere gli occhi o nasconderci dietro un dito, la nostra è una società anziana, con parecchi problemi di salute e continuiamo a non investire in questo settore lasciando che un po’ il tempo e un po’ il buon Dio ponga rimedio alla situazione.
Sento pronunciare quasi come una giaculatoria, l’acronimo PNRR e immediatamente i nostri amministratori hanno pensato di creare nuove case della salute, ma dentro queste strutture chi ci vogliamo mettere se continuiamo a non investire sulle risorse umane, perché continuiamo ad avere il numero chiuso per la facoltà di medicina e non assumiamo quelle che sono le figure professionali di cui una semplice casa di cura ha bisogno, vogliamo continuare a costruire cattedrali nel deserto? Questi sono solo alcuni aspetti in cui verte il mondo della salute ma se apriamo un attimino l’orizzonte, quanto avremmo da dire sulla cura dei malati mentali? Qualche tempo fa, l’ufficio nazionale di pastorale della salute ha creato gli Open day delle case di accoglienza per malati mentali, per promuovere l’attenzione su questa particolare problematica di salute, dando la possibilità di visitare delle strutture che accolgono questi malati, anche per rispondere a una sottile accusa che un certo mondo laico rivolgeva alle strutture cattoliche, additando questi luoghi come posti in cui le persone venivano segregate, private della libertà e trattate in maniera non umana.
Chiunque ha avuto modo di visitare questi luoghi ha toccato con mano quanto amore e dedizione viene offerto agli ospiti, non vengono chiamati pazienti, ma ospiti proprio perché si vive come in una famiglia, dove la reciprocità, l’attenzione, la cura e l’affabilità sono al centro del piano terapeutico. Tornando indietro con la mente, al periodo pandemico, che ci ha visti privati di tutto, vorrei spezzare una lancia a favore dei medici e del personale sanitario tutto, comprese tutte quelle persone che all’interno delle strutture sanitarie non solo come ad esempio coloro che sono addetti alle pulizie, hanno impiegato il loro tempo, messo a rischio la loro salute per garantire a ognuno di noi quel poco che si poteva fare ed avere, sono stati definiti eroi, angeli delle corsie, ma alla fine non hanno avuto nessun riconoscimento reale anzi chi era precario è rimasto tale, chi pur in pensione ha dato il suo contributo ma la gratitudine per il servizio prestato si è fermato ad una vera e propria verbalizzazione del sentimento, e che dire della paziente opera dei Cappellani, chi ha potuto rimanere nella struttura per cui operava, si è visto limitare l’accesso o addirittura negare, quindi non hanno potuto stare accanto ai malati e nel contempo ai sanitari che sicuramente in quel periodo avevano più bisogno di conforto, sostegno, tutto questo marasma ha solo accentuato il dolore dei parenti dei pazienti che hanno visto i loro cari morire soli senza nessuno che li potesse tenere la mano.
Oggi come oggi, si sta cercando di tornare lentamente alla normalità, l’auspicio è che le parole del Santo Padre siano veramente quel faro di speranza acceso perché ciascuno riscopra la bellezza del prendersi cura gli uni degli altri
*Incaricato regionale CES di pastorale della salute
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