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RUBRICA

L’agricoltura e il suo percorso storico, salviamola con scelte più adeguate

Aratura
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di Francesco Diana
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La fertilità dei suoli fu uno dei primi problemi che l’uomo si trovò a dover affrontare nel momento in cui cominciò a dedicarsi alla coltivazione della terra per il soddisfacimento delle proprie esigenze alimentari. Fin dal 2500 a.C., pare circolasse l’esito di un’osservazione naturale, secondo la quale da un seme messo a dimora se ne potessero ottenere almeno ottanta. Negli anni a seguire, successive osservazioni permisero di notare che, a seguito dell’esondazione di alcuni corsi d’acqua, i terreni inondati presentavano in superficie uno strato di limo che, di fatto, si rivelò poi come apportatore di grande fertilità.

Da ciò derivò l’esigenza d’incrementare il grado di fertilità dei terreni non soggetti ad alluvioni ricorrendo, fin dal 900 a. C., a fertilizzanti naturali quali il letame. A tal proposito, la leggenda attribuisce a Ercole la scoperta del potere fertilizzante del letame: nel corso delle leggendarie “Dodici fatiche”, allo scopo di governare in un solo giorno le stalle di “Re Augia”, fece deviare il corso del fiume “Alfeo” per far si che le acque, passando attraverso le stalle dove erano allevati ben trecento buoi, trascinasse via il letame, ovviando così a una delle sue dodici fatiche. In conseguenza di ciò, continua la leggenda, il letame andò ad accumularsi nei terreni a valle sui quali furono conseguiti abbondanti raccolti.

A prescindere dalla leggenda, l’utilizzo del letame come fertilizzante costituì una costante in virtù delle osservazioni effettuate all’epoca, che permisero di accertare che i terreni più fertili erano quelli sui quali pascolava il bestiame. Ciò fece maturare la convinzione che ogni rifiuto derivato da un essere vivente fosse in grado di apportare fertilità ai terreni. Conseguentemente si cominciò a utilizzare gli scarichi delle fogne e il sangue animale. I Greci arrivarono a sostenere che i campi di battaglia sui quali avveniva la prima parte della disgregazione dei cadaveri, risultavano poi dotati di un alto grado di fertilità!

Anche nella nostra realtà isolana, l’utilizzo del letame come fertilizzante è avvenuto fino a tempi abbastanza recenti, frutto di una consuetudine ultra secolare abbastanza consolidata, come ampiamente dimostrato dalla nomenclatura dei mesi dell’anno in lingua sarda, che indica il mese di ottobre come mesi dé ladamini”.

Per questi motivi il letame è stato l’unico fertilizzante usato in tutto il mondo fino al XVI secolo, epoca in cui gli scienziati cominciarono a studiare a fondo il fenomeno della fertilità dei suoli, finendo di assegnare all’acqua il potere fertilizzante, per via delle sostanze in essa contenute.

In seguito, intorno al 1840, il chimico tedesco Justus von Liebig, cominciò ad approfondire la ricerca per capire quali sostanze chimiche intervenissero nel processo vitale e produttivo delle piante. Dagli esiti di tali ricerche si arrivò alla produzione dei fertilizzanti chimici e al conseguente abbandono di quelli naturali, quali escrementi animali, sangue secco, ceneri, ossa ecc.

Iniziò così l’era dei fertilizzanti chimici, il cui uso doveva avere la capacità di reintegrare la fertilità del suolo mediante la distribuzione di quelle sostanze minerali, nella quantità sottratta con le produzioni agrarie praticate nell’arco dell’anno. Tale strategia portò a incrementi delle produzioni, che nel 1910 furono valutate intorno al 10% e nel 1930, addirittura del 30%.

Semina

Da quel momento in poi seguì un lungo periodo di moderato splendore dell’agricoltura che, specie nella nostra Sardegna, portò quantomeno alla stabilizzazione del numero degli addetti, garantendo loro redditi in qualche modo ritenuti remunerativi.

Con l’evento della globalizzazione, che ha reso libera la circolazione del denaro e delle merci in tutto il mondo, la già sofferente agricoltura italiana, e quella sarda in particolare, si è trovata a dover competere con i colossi mondiali in un confronto impari, che ha portato le nostre imprese ad abusare dei mezzi tecnici impiegati per la produzione, nel tentativo di un confronto ad armi pari nel grande scenario mondiale. A poco sono valse le varie politiche di sostegno adottate dalla Comunità europea, come ad esempio quelle riguardanti l’integrazione di prezzo sul grano duro prodotto. Gli effetti positivi della misura ha portato sollievo solo nel primo periodo di attuazione, mentre nel lungo termine ha prodotto danni incalcolabili per effetto dell’abuso incondizionato di prodotti chimici (concimi, antiparassitari e diserbi) che sono andati a inquinare corsi d’acqua e le falde freatiche causando la sparizione di molte specie animali, compresi gli insetti utili che costituivano un argine naturale contro i parassiti. Tutto ciò, oltre a quanto descritto, ha portato alla desertificazione di consistenti aree di seminativi, rese sterili dall’abbandono delle classiche rotazioni agrarie e l’adozione sconsiderata del “reingrano” per molteplici annate di seguito.

Che dire poi di altre politiche agricole comunitarie che, come sostegno alle imprese, hanno incentivato l’impianto di vigneti senza programmazione alcuna, che ha portato inevitabilmente alla saturazione del mercato vitivinicolo, che ha poi imposto l’adozione di un’altra misura di sostegno in favore dell’abbandono della viticoltura stessa che, all’effimero compenso rappresentato dal sostanzioso premio, univa grande disorientamento per la mancanza di un’adeguata programmazione capace di indirizzare le scelte future dell’imprenditore.

Queste e tante altre le ragioni che hanno portato al progressivo abbandono dell’agricoltura, al punto che fra le nuove generazioni sono ben pochi ad aspirare a un concreto inserimento nel mondo dell’agricoltura, quel mondo che oltre a dover sottostare alle leggi ferree dei mercati deve tener conto anche degli improvvisi strali che madre natura gli riversa attraverso le frequenti calamità atmosferiche.

In questa ottica non meraviglia affatto il disinteresse finora dimostrato dalle giovani generazioni in relazione a quanto previsto dalla Legge regionale n. 16 del 7 Agosto 2014 recanti norme in materia di agricoltura e sviluppo rurale, riguardanti l’agro-bio diversità, il marchio collettivo e i distretti rurali. Non meraviglia altresì la recente iniziativa intrapresa dall’Unione dei comuni della Marmilla, a distanza di ben sette anni dalla promulgazione della citata legge, che si spera possa produrre i frutti sperati. Tuttavia, consci della ripetitività del messaggio, riconfermiamo il nostro punto di vista in proposito, significando che le leggi emanate in favore del settore, devono essere precedute dalla divulgazione dei dati della ricerca effettuate in proposito dall’Università e dalle altre strutture pubbliche all’uopo preposte, per dare ai giovani la possibilità di operare una scelta sulla base di dati concreti pur assumendosi, come ovvio, le relative responsabilità sulle future scelte imprenditoriali. Ciò al fine di evitare che le scelte effettuate, come spesso accaduto in passato, siano condizionate prevalentemente dagli allettanti incentivi di legge che spesso portano al fallimento. La preliminare fase di studio, ricerca, sperimentazione e divulgazione dei risultati conseguiti dalle strutture all’uopo preposte deve, a nostro giudizio, precedere quella relativa all’emanazione dei provvedimenti legislativi tesi a incentivare le future scelte imprenditoriali, anche attraverso la concessione dei soliti incentivi.

Sulle nuove generazioni gravano pesantemente le esperienze vissute dai propri genitori, al punto di renderli diffidenti nei confronti delle iniziative riguardanti un possibile inserimento nel settore dell’agricoltura, gioie (poche) e dolori (molti) dei propri antenati. Dare a loro la possibilità di poter soppesare, con la scorta di dati certi e concreti, i vari aspetti riguardanti le loro future scelte imprenditoriali, significherà assicurare sufficiente consapevolezza e garanzia per il conseguimento degli obiettivi prescelti.

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