di Rinaldo Ruggeri
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Secondo alcuni, l’introduzione della cosiddetta fase due significa: rompiamo le fila, tutti a spasso come se l’infezione virale fosse debellata. No, il contagio è ancora presente se pure in forma meno diffusa. Il governo con la collaborazione degli scienziati e degli esperti deve gestire, anche, questa difficile fase. Serve collaborazione verso chi attualmente dirige il paese, non è tempo di attacchi fuori luogo. La critica, sale della democrazia, la si rimandi a momenti più sereni. In questo contesto di aspro contrasto si fa fatica a capire che il coronavirus, così come tutti questi esseri microscopici, vivono e si sviluppano secondo le loro logiche. Il governo o i governi combattono i virus, i batteri e le malattie in genere, con efficacia, se hanno investito risorse nella sanità e soprattutto nella ricerca. Il dato di fatto è, che in Italia in questi ultimi venti trent’anni si è disinvestito, sia nella sanità che nella ricerca. Gli ospedali, le cliniche e i centri di ricerca sono piene di professionisti, precari sottopagati. La sanità è stata vista, da una parte della classe politica, come un postificio, dove sistemare i propri ruffiani, spesso incapaci professionalmente e d’intralcio al buon funzionamento del sistema. Questo andazzo purtroppo continua ancora oggi, sia in Sardegna che in altre regioni d’Italia. Il coronavirus ha fatto emergere competenze ed eccellenze del nostro sistema sanitario ma ha anche messo in luce inefficienze, soprattutto del privato.
La sanità non può essere un’azienda, sia pubblica che privata, dove i parametri di giudizio sono il profitto e non il servizio reso ai cittadini. Bisogna ripensare ad nuova sanità, ma anche ad un modo originale di produrre in tutti i settori. Le cure e i vaccini non sono ancora disponibili, perciò, come ha detto qualcuno, sia nella fase due che nel prossimo futuro, si deve cominciare a produrre in modo nuovo. Se la salute dei cittadini, siano essi lavoratori, fruitori di servizi o consumatori, va posta al primo posto; tutto va pensato secondo questa logica.
Gli spazi nelle fabbriche, nelle officine, nelle botteghe, negli studi e nei centri commerciali vanno ripensati. Ci vogliono regole e programmi precisi da far rispettare, se si vuole impedire che altri individui si infettino e infettino altri. In questo frangente, non valgono le urla di alcuni politici che gridano ad un attentato alle libertà individuali o addirittura ad una violazione della Costituzione. Un divieto è pensato per salvaguardare la persona che compie l’infrazione e chi la subisce. Il limite di velocità in ambito cittadino è fatto a tutela del conducente dell’automezzo ma anche del passante che può essere travolto da un bolide a duecento all’ora. È giusto ribadire, che al momento e forse per un altro po’ di tempo, non esiste cura e vaccino contro il coronavirus, per cui l’unica cura possibile attualmente è il distanziamento sociale. È un divieto, ma non è un attentato alla democrazia. Si dice che i cittadini siano maturi; è vero la stragrande maggioranza dei cittadini italiani è responsabile, purtroppo una minoranza non lo è. Basta una esigua minoranza infetta per creare il disastro. Sono bastate uno o due persone contaminate ad introdurre il coronavirus in Italia. Il risultato è di fronte a noi: circa 220.000 infetti e circa 30.000 morti. Si è impazienti, si vuole rientrare al lavoro, questo è giusto ed è una richiesta realistica. Questa proposta si scontra con chi, nel corso di queste ultime settimane, ha violato le regole, lavorando senza protezione.
Le Tv pubbliche e private, e tutti i Social Network hanno fornito, a tal proposito, ampia documentazione. Si scontra, anche con coloro che vogliono riaprire tutto e subito, come i locali di intrattenimento e di ristorazione. Il problema non è del governo, al quale questi imprenditori si rivolgono, è dei clienti che non si recheranno mai in un locale che non rispetti le norme. È il buon senso che induce un avventore a non rischiare di infettarsi di un virus mortale.
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