di Antonio Corona
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Sono molteplici i luoghi comuni, gli stereotipi e i pregiudizi che riguardano gruppi sociali, etnie, luoghi, mestieri, professioni, orientamenti religiosi che talvolta investono intere popolazioni. Il luogo comune, dal latino locus comunis cioè la piazza, il luogo dove ci si soffermava a parlare, è inteso come una frase fatta, un detto, un proverbio o anche un’opinione che rappresenterebbe una verità sacrosanta. In qualche caso ha anche un qualche fondamento di verità, ma nella maggior parte dei casi si tratta solo di semplificazioni o stereotipi, opinioni, spesso negative. Talvolta lo stereotipo si nasconde in parole di tipo descrittivo, in maniera difficile da individuare.
Questi concetti astratti e schematici possono assumere un significato neutrale, un significato positivo o negativo ma spesso anche le caratteristiche positive riferite ad una o più persone possono essere buttate sul ridicolo.
Luoghi comuni e stereotipi si sono stratificati nel tempo e sono frutto principalmente di ignoranza. Non risparmiano nessuno, né singoli né gruppi, né cittadini e né campagnoli e neppure luoghi, mestieri o professioni, oggetti o avvenimenti, interessi, orientamenti religiosi o politici. Neppure la lingua ne è esente.
Ogni popolazione in generale ha i propri stereotipi, Sardegna e sardi compresi. Spesso si sente ripetere che il sardo è scontroso, ombroso, permaloso, quando non inquadrato nel termine di bandito o sequestratore, dati i casi non troppo lontani di sequestri di persone effettuati nell’isola. Ma non possiamo dire che i campani sono tutti camorristi, i calabresi tutti affiliati alla ndrangheta e i siciliani tutti mafiosi.
Durante il servizio militare, un graduato di mensa era solito apostrofare i sardi dicendo “Siete tutti banditi!”, finché non si è beccato da un sardo, durante il pasto, il contenuto di un intero vassoio in faccia, azione purtroppo dovuta scontare con 15 giorni di CPR e conseguente allungamento del periodo di leva. In un’altra circostanza negli anni 90 capitai a Roma per un evento. Un signore che ebbi occasione di conoscere mi disse “Sa che io ritenevo che i sardi vestissero ancora l’abito tradizionale con gonnellino, corpetto e ghette di orbace nero?”. Meno male che non ipotizzava fossimo ancora vestiti di pelli, vivessimo nelle grotte o peggio ancora che fossimo come cinghiali selvatici. Questo per dire quanto possano essere radicati ancora oggi gli stereotipi. Anche i mezzi di comunicazione di massa e i film soprattutto hanno contribuito a screditare in qualche modo la Sardegna. Quante volte abbiamo sentito un graduato minacciare un subordinato dicendogli “Ti mando in Sardegna!”, quasi fosse la più dura delle punizioni. In Sardegna ci si viene soprattutto per trascorrere le vacanze.
Storicamente ai sardi sono state attribuite, principalmente dai popoli dominatori, frasi rimaste nelle memoria che non ci fanno sorridere troppo. Il detto pocos, locos y mal unidos attribuito erroneamente a Carlo V, è riportato invece dal visitatore del Regno di Sardegna Martin Carrillo ambasciatore nel 1641 di Filippo IV. Ma non corrisponde assolutamente alla realtà. Che siamo pochi è indubbio data la vastità del territorio poco densamente popolato, ma non è una colpa. Che siamo tutti matti o folli non è neppure vero se pensiamo alla laboriosità, alla tenacia e alla capacità di sacrificio della popolazione isolana. Si può dire degli uomini e donne sarde mal unidos? Pensiamo all’aiuto e alla collaborazione reciproca nel lavoro agricolo o dell’allevamento, alle tradizioni isolane comuni, al senso di ospitalità generale e di solidarietà soprattutto nei momenti difficili, ai valori per la terra e per la famiglia. Pensiamo all’antica pratica de sa paradura praticata anche oggi se un allevatore perde il suo gregge e a tante altre cose ancora. Si dice poca unione questa?
Dai luoghi comuni non si salva neppure la lingua sarda. Sarebbe un dialetto pure arretrato, arcaico, non unitario, ancorato alla tradizione agro pastorale. Non la pensavano così Max Leopold Wagner il maggior studioso di lingua sarda, né Antonio Gramsci, né tanti altri personaggi illustri. Dire poi che la lingua sarda non serve è un altro luogo comune. Serve invece, serve e molto soprattutto ai sardi. Per dirla con il prof. Francesco Casula, la lingua sarda «Ci serve per liberarci dall’oppressione coloniale linguistica e culturale impostaci dai dominatori del passato e del presente. Serve per liberarci dagli atavici complessi di vergogna e inferiorità. Serve per restituirci l’orgoglio e la dignità di Sardi».
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