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L'intervista Villamar

Margherita Casula ci racconta la sua esperienza da volontaria di Emergency

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Si è svolto lo scorso 7 novembre presso l’aula consiliare di
Villamar un seminario dal titolo “Racconto di un’esperienza di collaborazione internazionale con Emergency”, l’associazione fondata nel 1994 da Gino Strada e sua moglie Teresa Sarti per offrire cure medico-chirurgiche gratuite e di elevata qualità alle vittime delle guerre e alle vittime di tutte le conseguenze che essa comporta. In una buona cornice di pubblico hanno parlato Miranda Corda – referente del gruppo territoriale di Emergency di Serrenti – che ha illustrato gli scopi e le modalità con cui l’associazione opera nel mondo e la dottressa Margherita Casula di Villamar – medico specialista in cardiologia – che ha raccontato in maniera semplice ed esaustiva la sua esperienza con l’associazione da volontaria in Sudan dove è stata in due diversi periodi, rispettivamente di sei e tre mesi, negli anni compresi fra il 2010 e il 2012.
Sono stati soprattutto i racconti di Margherita a destare molta attenzione e a tratti anche un pizzico di commozione da parte di alcuni del pubblico presente in sala, me compreso. Alla fine della serata vi è stata una bella tavola rotonda durante la quale molte persone hanno posto diverse domande alle due promotrici dell’evento.
Qualche giorno dopo ho deciso di contattare Margherita e le ho chiesto la propria disponibilità ad una breve intervista, alla quale molto gentilmente ha subito acconsentito.
Margherita è una ragazza molto conosciuta a Villamar, paese nel quale è cresciuta ed abita tuttora. É sposata ed ha una bellissima bambina di tre anni. Mi accoglie gentilmente nella sua casa dove iniziamo insieme una bella e proficua conversazione.
Ci può raccontare brevemente che cos’è e come opera l’associazione Emergency?
È una ONG che opera nel mondo con lo scopo di promuovere la cultura di pace e l’affermazione dei diritti umani, nonché intervenire nelle zone di guerra per prestare cure e soccorso alle vittime dei conflitti armati e di tutti coloro che soffrono altre conseguenze sociali dei conflitti o della povertà quali fame, malnutrizione, malattie, assenza di cure mediche e di istruzione.
Che cosa l’ha spinta a collaborare con Emergency? Può farci un resoconto della sua esperienza?
Mi ha spinto la coerenza. Concordo con quanto viene affermato nella dichiarazione dei diritti umani, condivido pienamente gli scopi dell’associazione per cui non vedo perché mi sarei dovuta tirare indietro. Io, come tutti i collaboratori di Emergency, sono convinta che la soluzione dei gravi problemi del nostro pianeta possa iniziare, seppur timidamente, dalla cooperazione in pace. Credo che la cooperazione in pace sia un modo non solo di offrire cure ed assistenza, ma anche uno strumento capillare per promuovere una cultura di pace che possa crescere con il tempo e la pazienza. Farti un breve resoconto dell’esperienza? Simone, ciò che mi chiedi è improponibile! Ti garantisco che potremmo parlarne per ore e giorni; infatti gli argomenti su cui chiacchierare e discutere sono tanti. Posso però farti un bilancio, questo sì. E si tratta senza dubbio di un bilancio positivo, oltre ogni difficoltà, oltre ogni intoppo, oltre ogni paura, oltre il forte stress emotivo in cui inevitabilmente ti trovi a dover lavorare. E oltre ogni dubbio, perché sì, il dubbio in missione spesso ti assale: ma starò facendo la cosa giusta? Ma ne vale la pena?
Un momento molto commovente dell’incontro di Emergency è stato quando ha letto il suo racconto dedicato a Osama, un bambino che, grazie alle sue cure e a quelle del suo staff, è stato salvato da morte certa.
Si tratta di una racconto che ho deciso di scrivere quando sono rientrata in Sardegna perché è stata una storia che mi ha coinvolto talmente tanto che non volevo dimenticare nulla. Ho deciso soltanto successivamente di condividerla perché credo rappresenti l’estrema sintesi di quella che è stata la mia esperienza. Osama è un bambino con una seria patologia cardiaca; è un piccolo musulmano, mentre io per lui sono soltanto una persona bianca. Per mesi, nonostante il mio prodigarmi nelle cure verso di lui, non mi guardava neppure in faccia. É stato poi bellissimo osservare che con la pazienza e la costanza c’è stato un graduale avvicinamento fra di noi che ha raggiunto il suo culmine quando siamo riusciti finalmente ad incontraci con una bellissima stretta di mano. La cosa che mi ha colpito di più non è tanto il fatto che Osama sia guarito (oggi infatti sta bene) quanto constatare che, pur essendo io e lui così diversi, siamo riusciti ad incontrarci. Quella stretta di mano ha un significato simbolico enorme e sintetizza in pieno lo scopo di Emergency: siamo prima di tutto persone, al di là di ogni differenza di razza, religione e cultura. Io e Osama, due mondi diversi; quella stretta di mano è quindi una prova tangibile che nonostante le distanze ci si può incontrare.
Durante il seminario qualcuno si è complimentato per il suo coraggio e lei ha risposto che per fare questo tipo di esperienze “trovare il coraggio” non è l’ingrediente principale.
Come ho già detto per fare questo tipo di esperienze serve la coerenza, ma voglio aggiungere che è importante anche la convinzione per poter continuare perché durante la missione è inevitabile che i dubbi ti assalgano. Però tu decidi di farlo soprattutto per te stesso, perché tutta questa esperienza ti dà talmente tanto dal punto di vista umano e professionale che alla fine non riesci più a farne a meno. Questo è un sentimento molto comune fra le persone che partono più volte in missione o a far cooperazione internazionale; alla fine di tutto infatti ti vien da dire: perché non rifarlo? Aiutare le altre persone è una cosa che ti arricchisce talmente tanto che alla fine diventi quasi egoista, diciamo pure che vieni presa da un “egoismo buono” che ti acchiappa e non ti lascia più.
In un’ipotetica scala di valori da 0 a 10, quanto ha influito questa esperienza con Emergency dal punto di vista professionale ed umano?
Da un punto di vista professionale è stato molto costruttivo perché ho visto malattie che si vedevano qua cinquant’anni fa ed ho imparato a limitare le risorse a disposizione. É vero che anche qui da noi quest’ultimo aspetto esiste, ma laggiù si doveva prestare ancora maggiore attenzione. Bisognava essere parsimoniosi persino sui propri oggetti personali. Dal punto di vista umano sono cambiata, non lo nego. Al mio rientro ho accusato il mal d’Africa e notavo, spesso con fastidio, tutto quello che c’è di superfluo e di inutile nella nostra realtà. Impari (o forse impari nuovamente) ad assaporare le cose semplici che spesso nella nostra realtà diamo per scontate. Darei un 4 alla mia esperienza al lato professionale ed un 7 a quello umano.
Non crede che alcuni medici (per fortuna non la maggioranza) prima di cimentarsi nel proprio lavoro dovrebbero affrontare prove che aprissero maggiormente il loro lato umano oltre a quello professionale?
Esperienze del genere fanno sicuramente breccia sul tuo aspetto umano e la tua sensibilità; consiglierei naturalmente di provarle, però e ci tengo a sottolinearlo, soltanto a persone pienamente convinte e motivate perché mi è capitato di vederne alcune che non sono riuscite a reggere l’elevato stress. Per quanto riguarda il lato umano nella professione del medico è inutile nascondersi: da noi c’è carenza di formazione nella comunicazione con il paziente. A tal proposito aggiungo che la formazione in comunicazione durante nel mio ciclo di studi, sia da studentessa universitaria che da specializzanda, sia stata praticamente assente. Anche se oggi negli studi in medicina si da più spazio alla comunicazione, credo che su quest’aspetto in Sardegna e ovviamente parlo della mia terra perché è qui che vivo e lavoro, ci sia ancora tanto da fare.

Simone Muscas

RIPRODUZIONE RISERVATA
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