Confesso che non ci ho mai capito molto, e credo tanti altri come me. Stando alla Bibbia, Caino si dedicava
all’agricoltura e Abele alla pastorizia. Il primo offriva al Signore frutta e verdura, il secondo il sacrificio di animali e i loro grassi, ma il destinatario non gradì in ugual misure le offerte, snobbò le verdure e apprezzò le carni. Caino visse male il fatto e scaricò la responsabilità delle proprie sofferenze sul fratello uccidendolo e riducendo così a tre persone gli abitanti sulla terra. Ma i conti non tornano. Caino infatti, nel corso del suo vagabondare, incontrò una tribù di altri umani, che chissà quando e da chi erano stati creati, ne sposò una donna e fece figli su figli. Dall’altra parte anche Adamo ed Eva si diedero da fare per popolare la terra e procrearono felici. O forse con dolore. Il tempo passò veloce tra spassi e festini, che il Signore non condivise e per punire quei peccatori gli mandò il diluvio universale. Noè, il prediletto, costruì l’arca, dove stivò animali e familiari, e i figli Sem, Cam e Jafet diedero origine al nuovo popolo e alle relative tribù, amate o maledette. Il diluvio, l’acquazzone o chissà cosa affogò tutti quelli che non trovarono ospitalità nell’arca o anche i discendenti di Caino sopravvissero con altre barche e procrearono con i discendenti di Noé? Sorge a questo punto la domanda spontanea: la storia del diluvio (che è comune a tante antiche civiltà) è stata scritta per affermare la superiorità di un popolo rispetto ad altri raccontandone meriti e demeriti o l’autore l’ha fatto per ingraziarsi il proprio sovrano? Un cosa che hanno fatto anche il Tasso con la sua Gerusalemme Liberata, il Machiavelli con il suo Principe e molti altri.
Fatto sta che le tre tribù originate dai figli di Noè non vissero felici e contente. Per secoli la Palestina fu terra di conquiste e, con l’arrivo del cristianesimo e poi dell’islamismo, teatro di guerre di religione oltre che di interessi, e tanti ebrei, che continuavano a seguire la propria fede e si ingegnavano in molte attività, si sparsero per il mondo in cerca di vita più facile e più ricca, ma continuarono a subire angherie e persecuzioni varie fino a quando, dopo la seconda guerra mondiale e la shoah, le Nazioni Unite decisero di dar loro una patria decidendo nel 1947 la divisione delle terre di Palestina tra arabi ed ebrei e l’anno successivo la nascita del nuovo stato. La cosa non piacque ai palestinesi, che si vedevano privati dei, anche per loro, luoghi sacri, e non mancarono altre guerre. Poi pure loro, 40 anni dopo Israele, si videro riconoscere uno stato proprio. Riconoscere è una parola grossa, nel senso che ne furono sì stabiliti certi confini, ma di fatto ben pochi stati occidentali gli diedero un riconoscimento ufficiale e tuttora qualcuno (come per esempio la nostra Camera con un risultato negativo perché subordinato a un accordo tra Al Fatah e Hamas) lo chiede mentre il coraggio di concederlo non esiste. Lo stesso discorso vale per lo stato di Israele, non riconosciuto da molti stati islamici, e così questa terra “promessa” continua a essere luogo di scontro di interessi e di ideologie religiose. Il mancato riconoscimento dell’uno o dell’altro porta così al populismo, all’integralismo, all’ultraortodossia e all’estremismo, cioè a propugnare la distruzione dell’avversario. Non sarà facile far trovare un punto d’incontro a Hamas e Al Fatah, come non sarà facile trovare una linea condivisa alle diverse estrazioni di destra e di sinistra ebree.
La paura fa novanta, si dice, cioè fa fare cose che nessuno farebbe in condizioni normali, e Netanyahu nel corso della sua campagna elettorale e degli incontri in Usa e in Francia ha parlato di paure, del rischio che l’Iran possa riuscire a farsi le bombe atomiche e di quanti propugnano la distruzione dello stato di Israele. E ha negato il diritto all’esistenza di uno stato palestinese, cosa che non è stata gradita a Obama e a molti altri, ebrei o meno, che danno appoggio allo stato ebraico.
In realtà anche lo scontento dei residenti in Israele non è tutto odio per gli islamici, è anche malessere per una società dove i ricchi, come ormai ovunque, depredano i poveri. La politica di Netanyahu, che ha vinto le elezioni, non piace, gli insediamenti per i coloni in territorio palestinese non piacciono, le agevolazioni agli ultraortodossi che lo appoggiano non piacciono. Non è l’islamismo che dobbiamo temere, ma il disagio economico-sociale che, guidato e alimentato ad arte da chi ha interesse a creare il caos, porta alla follia dell’estremismo integralista di carattere religioso, al terrorismo indiscriminato e al condizionamento dei cervelli, che solo una volontà comune e il coraggio di rinunciare a credi e interessi di parte potranno combattere.
Anche cane e gatto possono diventare amici ed è tempo che Israele e Palestina comincino a liberarsi dell’odio reciproco e a dialogare, anche per evitare che i loro scontri continuino a essere pretesto per reazioni esasperate e si propaghino sull’intero pianeta. Evitiamo di prendere a esempio il comportamento dei primi due figli di Adamo ed Eva.
(a cura di Edmunduburdu)
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