di Sergio Portas
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Se c’è un posto dove si può sperimentare sia possibile “convivere col covid che muta” questo è la fiera dell’artigianato che anche quest’anno si è aperta all’inizio di dicembre (dal 4 al 12) a Milano. Alla fine saranno circa 600.000 i visitatori, tutti rigorosamente mascherati e “green pass” muniti, rigorosi i controlli in entrata e neppure tanta fila nonostante la gente che sciamava dalla metropolitana in cui, per onore della verità, il concetto di distanziamento sociale aveva perso il significato originale. Non sfugge che in una simile manifestazione l’artigianato sardo brilli da sempre per una sua proposta originale, non fosse altro che per la tradizione che si porta dietro, pensate che persino il famoso dizionario illustrato della lingua italiana Devoto-Oli alla voce “artigianato” (industria a livello domestico e tradizionale) si preme di specificare: “ l’a. è ancora assai diffuso in Sardegna”. Il duo (Sardegna/artigianato) sembra inscindibile anche a livello di percezione sociale, almeno nel nostro paese, e viene da pensare che con lo sviluppo delle reti-internet si spalanchino, per questo settore in particolare, autostrade di possibilità di sviluppo prima impensabili. Non c’è più bisogno di recarsi di persona alla pasticceria di Dualchi per assaggiare i famosi dolci con la saba di fico d’india, con un clic di ricerca su “google” dolcisardi.it (o roba del genere) ti si squaderna tutto un mondo di possibilità e, con un altro clic, i dolci ti vengono consegnati alla porta di casa, nel giro di pochi giorni, e con un rincaro assolutamente trascurabile. Quello che toccherebbe mantenere fermo, in questo contesto di concorrenza globale (sono sicuro che google è capace di trovarmi anche umbriadolci.it, se non tunisiadolci.it e via dicendo) è la differenza che corre tra un commerciante e un artigiano. Almeno in una fiera, come questa, in cui il tentativo vero è quello di promuovere un certo tipo di lavoro manuale, che diventa per lo più talmente originale da sconfinare nella unicità del prodotto offerto, sia per la scelta dei materiali, sia per la specificità dell’operatore, che spesso si avvale di tutta una tradizione familiare che con lui si rinnova e rinverdisce.

A sentire quelle di: “I Dolcisardi di Serra Rita”, pasticceria artigianale di Monastir dal 1998 sembra che purtroppo e ancora una volta la Regione Sardegna ( nell’operato del suo assessore al turismo Gianni Chessa) operi invece nel senso di favorire: testuale: “su fillu ‘e sa pudda bianca”, insomma distingue tra figli e figliastri, agli uni fa pagare un certo canone di esposizione (molto più basso), chiudendo più di un occhio sulla loro “originalità artigiana”, agli altri la bellezza di 6275 euro. Che a mio avviso sono un bel mucchio di soldi e anche se questi di Monastir si sono portati dietro 400 Kg di amaretti buonissimi (ma le mandorle non sono autoctone) e li vendessero tutti, per rientrare nelle spese debbono davvero sperare in una congiuntura molto favorevole (e a oggi il bicchiere è mezzo vuoto). Non mi stupisce che dietro le mascherine nere i loro occhi mandino sprazzi di collera quando mi dicono di “bandi che non vengono indetti in modo trasparente”, e non si possono certo consolare se l’assessore Chessa, quando passa dinanzi al loro banco espositivo, se ne sta con gli occhi e le orecchie basse, come sapesse di averla fatta grossa.
Troppi sono anche gli stand di commercianti “travestiti da artigiani” e in un periodo di rilancio in cui il settore del commercio ha sofferto la pandemia in modo particolare, tutto questo risulta intollerabile. Con la promessa che chiederemo riscontri all’assessore appena ne avremo la possibilità, facciamo finta che io mi travesta da Virgilio e vi tenga per mano durante la visita a questa “commedia divina” che si spalanca agli occhi di un visitatore comune, con l’implicita premessa che il viaggio sarà parziale e casuale come si conviene a quello dei fanciulli che improvvisamente si trovano trasportati in quel di Disneyland.
Ad aprire la porta virtuale una ragazza dinanzi a un telaio verticale di Nule, dalle cui dita cui sta prendendo forma uno di quei tappeti “a fiamma” per cui il paese del Goceano ha sparso la sua fama per tutto il territorio sardo, creazioni al telaio che perdono le origini in un’antichità altra, in cui dei e animali si fondevano a determinare il vissuto delle genti, a ricordo imperituro il bronzetto nuragico lì ritrovato: metà uomo e metà toro, con un impressionante copricapo, una sorta di pinna di dimensioni esagerate, oggi giacente al museo archeologico di Cagliari.

Poco più in là Monica Secchi, gioielliera in Arbus (Domu Mea Gioielli) si presenta al pubblico con alle spalle una impressionante gigantografia della Basilica di Saccargia, a mio avviso la più bella chiesa romanica sarda, i mattoncini di arenaria giallo-dorata alternati a quelli di trachite nera con cui è costruita sono stati utilizzati senza uno schema fisso, conferendo a tutta la struttura uno straordinario gioco a due colori unico nel suo genere. Unici anche i gioielli esposti naturalmente, filigrana sarda lavorata a mano, fiori selvatici intrappolati per sempre in un cuore di metallo pregiato, bianchi e fitti quelli delle carote selvatiche colti mentre spingono il capo tra le erbe di Montevecchio per non perdersi il primo sole dell’alba di primavera.
Per la prima volta a Milano quelli del “Pub Agricolo” di Mamoiada, generosi nell’offrirti un bicchiere di cannonau “Barallibus”, che fa sentire al primo sorso tuti i suoi 16,5 gradi alcolici. Il “logo” autoironico che offrono al pubblico: un teschio di mucca, a cui manca un corno e con un foro in fronte riconducibile a quello di un proiettile con cui sono spesso infiorettati i cartelli stradali barbaricini.

A proposito di Barbagia, Roberto Ziranu (bottega a Nuoro in via Limbara), è qui con le sue farfalle di cangiante ferro smaltato. Ne ha di tutte le taglie, non a caso vanno dai 220 ai 5.000 euro e pare che a lui le cose (leggi vendite) vadano parecchio bene. Si autodefinisce fabbro-scultore, e sprigiona un’energia tutta particolare, non a caso ha grandi progetti per il prossimo anno: 12 ritratti (sempre in ferro) alti almeno un metro di sei uomini sardi celebri (Ciusa, Nivola…) e sei donne (Maria Carta, la Deledda, Maria Lai…), una mostra che girerà mezza Italia. Parla un sardo barbaricino sontuoso, lui che è di Orani, al contrario di Annalisa, la sua nuova “fiamma” che è di origini arburesi: questa estate lo ha accompagnato (finalmente!) per le meraviglie della Costa Verde, più ancora che le dune di Piscinas, è rimasto fulminato dalla “Casa del Poeta” di Pistis, il ginepro secolare trasformato in dimora da “Tziu Efisiu Sanna”, poeta di Guspini.
Meno entusiasta (delle vendite) è Luigia Piga dell’azienda pastificio e liquorificio “Collu” di Villasor, anche lei si lamenta che in fiera mischiati ai “veri artigiani” ci siano troppi “rivenditori” che semplicemente commerciano prodotti che non hanno certo contribuito a coltivare, selezionare, manipolare con le loro mani. Come fa e mirabilmente Salvatore Bussu, originario di Ollolai con azienda e pecore in località Campesa (Macomer): anche quest’anno a Oviedo in Spagna in occasione dell’internazionale “Wordl Cheese Award” (230 giudici che hanno valutato oltre 4000 tipologie di formaggi di oltre 40 nazionalità) i suoi prodotti hanno meritato due argenti e tre bronzi. Non è un caso che nel suo stand faccia bella mostra di sé la bandiera bianca con la chiocciola rossa: il marchio prestigioso di “Slow Food”.

Non mancano gli artigiani del coltello sardo, uno per tutti: Efisio Spiga che per 13 anni ha svolto la sua attività in quel di Guspini (zona Pip) e ora si è trasferito a Villasimius, nel suo biglietto da visita, a onta di ogni equivoco, il numero 83216 dell’albo artigiani a cui risulta iscritto. La sua “Non Solo Coltelli” vende naturalmente anche su internet: una “Guspinesa” a lama mozza viene via a 100 euro, per una “Logudoresa” con manico in corno di bufalo ce ne vogliono ben 650. Nonostante la crisi in cui versa il settore del miele, relativo alla moria delle api che interessa oramai quasi ogni ambito del pianeta, una vera e propria pandemia innescata dagli insetticidi neonicotinoidi che i contadini spargono a piene mani sui loro campi, e che impediscono alle api di ritrovare la strada di casa una volta abbiano fatto il pieno di polline, anche la “Apinath” di Marrubiu si rivolge in rete a una clientela internazionale, persino cinese. Mischiando anche prodotti diversi, miele e zafferano ad esempio, e poi tutti i classici gusti: erica, asfodelo, cardo, e corbezzolo naturalmente, con le api che vengono portate sulle pendici del monte Arci, località “Is Benas” a produrre quel miele amaro così caratteristico. Si gira circondati da un improvvisato “canto a tenore” dei “Su populu sardu” di Oliena, che attira pubblico numeroso; sono coordinati dalla Fondazione “Maria Carta” con Giacomo Serreli che, mi dice, con loro anche i Fantafolk: Vanni Masala e Andrea Pisu, virtuosi di organetto e launeddas, il gruppo folk “Sas Nugoresas” di Nuoro, corpo di ballo di sole donne a “muccadori” e gonna nera, candida camicetta scollata con bottoni d’oro e corpetto rosso. E ancora Beppe Dettori e la sua chitarra e Maria Giovanna Cherchi. Suonano e ballano a ore fisse riempiendo gli spazi di note e nenie quasi si fosse immersi in una festa di paese improvvisatosi per pura magia nello spazio meneghino. Nel mentre Gloria Atzei, nel costume di Sarroch in toni di verde e nero, il petto pieno di “prendas de oro”, offre ai presenti bianchini che ti si sciolgono in bocca, tocca è vero calarsi la mascherina, lei in compenso ne porta una nera istoriata con fregi dorati, che neanche gli shardana ai loro bei dì.
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