di Roberto Loddi
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L’albero dell’olivo, pianta sempreverde, simbolo della vita e del Mediterraneo, era particolarmente gradito a Zeus, come simbolo di pace, ai Greci che consideravano l’olivo albero sacro, al mondo e alla cultura ebraica che lo vedevano come segno della giustizia, della sapienza e al cristianesimo, da sempre presente nella narrazione biblica ed evangelica a partire da Noè e la colomba nel diluvio universale e infine con Cristo, colui che è unto. Secondo la leggenda, Zeus fu chiamato a fare da giudice in una sfida tra gli dei dell’olimpo, sul dono più utile al popolo. Alla fine della competizione i contendenti rimasero in due: Atena che si presentò con un ramo di olivo e Poseidone con un cavallo bianco. La vittoria fu assegnata ad Atena, portatrice di un simbolo di pace, che prevalse sul cavallo simbolo della guerra.
Proveniente dall’Oriente, in età Minoica l’olivo trova il suo habitat naturale a Creta, si comincia a conoscerlo, a produrre olio, a conservarlo per avere scorte e si inizia timidamente a esportarlo. In Grecia l’olio diventa presto un prezioso unguento per mantenere in forma smagliante il corpo. Dopo il bagno viene sparso sulla pelle per renderla liscia e morbida ed è offerto agli ospiti come dono di pregio, come tonico e rinfrescante dopobagno e gli atleti lo usano per rendere lucidi i muscoli. Viene inoltre usato come ingrediente per la preparazione di frittelle di farina di sesamo e miele. Numerosi sono i testi classici latini che danno all’olio proprietà medicamentose, quello che un tempo era considerato condimento o crema di bellezza e di ristoro, viene menzionato per curare la febbre o per alleviare i dolori. Non a caso proprio con i Romani si incrementa la coltivazione dell’olivo, tanto da arrivare a una classificazione, furono loro a proporre moderni metodi di ammasso e distribuzione, istituendo una vera e propria borsa in cui si barattavano intere partite d’olio. Giulio Cesare nel commentarius della guerra d’Africa riporta un compenso di ben 300.000 libbre d’olio l’anno versate dal popolo di Leptis Magna. Per incentivare il commercio privato, gli imperatori concessero condizioni privilegiate ai negotiatores olearii, che trattavano con Spagna e Africa. Catone nel suo De agri cultura cita la ricetta dell’antipasto di olive verdi, oleam albam, impreziosito con semi di finocchio e lentisco e quella dell’epityrum album, una sorta di olive conciate in olio di oliva ed erbe aromatiche in scapece, scabecciu da scabecciai, che in sardo vuole dire mettere sotto aceto. Omero, nei suoi poemi, affermava che l’olio era usato solamente per la pulizia e l’igiene.
I secoli che seguono il periodo romano sono legati a guerre e invasioni; la coltivazione dell’olivo comporta impegno e investimenti iniziali gravosi, poi anni di attesa necessari per la trasformazione in olio prima di avere frutti e proventi. La produzione cala e gli oliveti vengono abbandonati. Fortunatamente però grazie ai monasteri e alle loro estese proprietà terriere la coltivazione rimane viva. Le cose vanno decisamente meglio nel Medioevo, infatti, grazie a nuove forme di contratto nascono in qualche modo i primi contadini proprietari dei terreni a loro assegnati. Riprendono con vigore le coltivazioni e allo stesso tempo la commercializzazione dei prodotti in nuovi Paesi, primo tra questi l’Egitto, che grazie all’olio l’economia si risolleva. Nel Trecento in Italia si delineano due tipi di condimento ancora attuali, il Nord vanta il primato dei grassi animali grazie allo sviluppo dell’allevamento del maiale, in minor quantità quella del bovino con tutti i derivati. Nel Sud Italia invece si contrappone la coltivazione di olivo e l’olio, considerato condimento naturale, utilizzato da secoli, ideale per ogni preparazione. Anche nel Settecento, l’olio ha il suo rilievo e ruolo culinario. L’economia è in continua ascesa, cominciano le prime classificazioni e i frutti vengono distinti in base alla provenienza geografica. Le coltivazioni vengono incentivate e ben presto la notorietà del nostro olio si espande e raggiunge i paesi di tutta Europa. Numerose industrie rendono l’olio elemento di vitale importanza per l’economia del Paese, fermo restando che l’impiego principale rimane la gastronomia. L’olio italiano, infatti, è il più richiesto da Corti importanti per proporlo in tavola a commensali e ospiti illustri e prestigiosi.
Il dopoguerra e il boom economico hanno affermato l’olio come un ingrediente povero, da preferire ai ricchi grassi animali. Oggi l’olio è in netta ascesa, merito anche del rinnovato interesse per la cucina mediterranea, contraddistinta proprio dall’uso dell’olio d’oliva italiano. Medici e dietisti lo confermano e ne sottolineano il corretto apporto nutrizionale, ingrediente molto importante nella dieta dei centenari in Sardegna, dove la coltivazione dell’olivo fu importata presumibilmente da indigeni di origine minoica e la tecnica di lavorazione così come l’estrazione dell’olio proviene dal periodo romano, nel quale furono costruiti i primi frantoi per la spremitura. La produzione di olio, tra alti e bassi, crisi e ripresa, è sopravvissuta fino ad arrivare ai giorni attuali, nei quali si registra un’impennata significativa che si concretizza, in una filiera produttiva di qualità e valore senza precedenti.
A proposito di eccellenze, a Narcao, un paese della provincia del Sud Sardegna, nella regione del Sulcis, si produce olio di oliva veramente di pregio. Testimonianze e tracce fanno risalire la presenza umana nel territorio di Narcao, Narcau, al periodo prenuragico (circa 3500 anni fa), lo confermano i siti archeologici e le diverse caverne nella zona, dove sono stati rinvenuti oggetti di bronzo e ceramiche. Gli abitanti nuragici erano intelligenti, ingegnosi e avevano appreso l’arte di come lavorare la terra e con perspicacia iniziarono a estrarre minerali dal sottosuolo, che poi fondevano sul fuoco per fabbricare arnesi multiuso.
Ben presto i Fenici occuparono le zone costiere, guadagnando poco alla volta i territori all’interno, sino ad arrivare dove oggi sorge Narcao. Secondo la storia, la vita in comune tra i due popoli non durò a lungo, dopo eterne controversie e diatribe la spuntarono i Fenici, ma questi ultimi furono ben presto sconfitti dai Punici, che dominarono a lungo il territorio sino a quando vennero annientati dai Romani. Quel che rimane oggi della loro permanenza sono i resti di costruzioni e i successivi interventi al tempio di Demetra. Intorno all’anno 1000, il villaggio di Narcao apparteneva alla Curatoria del Sulcis, nel giudicato di Cagliari, in questo tempo risulta la presenza di monaci benedettini che con sapienza sfruttarono il suolo fertile e ricco di acque sorgive, mitzas. I monaci edificarono chiese e monasteri e cominciarono a sostenere gli abitanti, insegnando loro nuovi metodi di lavorazione dei terreni e come curarsi con l’impiego di erbe e unguenti. Con l’avvento degli aragonesi, nel 1323, Narcao annoverava circa 400 anime, ma col passare dei secoli il paese subì una sensibile riduzione degli abitanti a causa delle scorribande dei predoni, arrivati via mare che si inoltravano sempre più frequentemente verso l’interno.
Intorno alla fine del XVIII secolo, Narcao iniziò ad avere una più precisa identità di paese, poiché nella regione incominciarono ad arrivare pastori e contadini barbaricini, cabesusesus, dando un significativo contributo all’incremento di densità della popolazione. Nei 1853, dal Regio Decreto del Regno di Sardegna dell’11 luglio, risulta che il paese annoverava 2.280 abitanti.
Oggi Narcao è un paese che conta circa 3050 abitanti, la sua economia è basata sulle attività agropastorali, sulla coltivazione di cereali, grano, foraggi, ortofrutta, uva e olivicoltura, ma registra anche numerosi allevamenti di bovini, equini, suini, ovini, caprini e avicoli. Contribuiscono al reddito del paese anche il settore alimentare, quello della lavorazione del legno e dei mobili, dell’estrazione di minerali, dell’edilizia e l’arte della tessitura. A vivacizzare la vita del luogo, ci sono sagre e feste che si svolgono nel corso dell’anno, curate dalla Pro Loco e dagli enti competenti, in queste manifestazioni spicca la gastronomia che richiama turisti e appassionati intenditori da tutta l’Isola. Tra le specialità più affermate e di successo ci sono i classici e immancabili malloreddus, gnocchetti sardi, conditi con svariati intingoli, la pasta con le arselle, il minestrone di fave, le grive al mirto, is pillonis o pilonis de tacula, “spiedino” di 8 uccelli come tordi, merli, storni, quaglie e passeri bolliti, salati e impreziositi con foglie di mirto, aragoste e tonno arrosto, amarettus, amaretti, pabassinus, dolcetti con uva passa, tzippulas, frittelle di Carnevale, pardulas, formaggelle pasquali e tante altre gustose preparazioni.
Tutti gli anni a dicembre Narcao si veste a festa e propone la “Miniera del gusto”, ollu e binu noitzu de sa minera de su sabori a Narcau, olio e vino nuovo della miniera del sapore a Narcau, tra le colline di Terrubia dove da tempo è attivo un ecomuseo con albergo e ristorante, gli organizzatori propongono i laboratori del pane e della pasta preparati come un tempo, ricette tradizionali, caldarroste e vino novello, con degustazioni di olio nuovo, motivo di orgoglio di Narcao. Nell’ambito della manifestazione sono presenti stand con prodotti del territorio e manufatti artigianali. Il tutto condito con musiche folkloristiche e balli della tradizione sarda.
Ingredientis:
Gr 800 di fegato di agnello, una bella cipolla di Zeppara (area molto proficua della Marmilla), 3 pomodori secchi ben dissalati, 5 cucchiai di vino passito, un cucchiaio colmo di capperi sott’aceto ben strizzati di Selargius, un ciuffo di timo selvatico, armiddha, una mestolata di brodo, 6 filetti di acciughe sott’olio, gr 50 di sugna, farina bianca, olio di oliva extravergine, zafferano San Gavino, sale e pepe di mulinello q.b.
Approntadura:
Poni dentro a un capace tegame di coccio un generoso giro di olio assieme alla sugna, la cipolla finemente tritata con i pomodori secchi e fai rosolare il tutto fin quando avrai ottenuto un soffritto dorato e cremoso. Fatto, rifila il fegato, riducilo a poltiglia con l’aiuto di un coltello a lama pesante e il ricavato uniscilo al soffritto assieme a una spolverata di farina, il brodo di carne bollente e prosegui la cottura dolcemente per circa venti minuti sempre mescolando per evitare che il composto si attacchi sul fondo. Trascorso un quarto d’ora, aggiungi i capperi, le acciughe spappolate, il timo sgranato e il vino passito, poi regola il sapore di sale e impreziosiscilo con una presa di zafferano e una torchiata di pepe, quindi porta a termine la cottura. Non appena avrai raggiunto una salsa densa, rendila cremosa con il frullatore ad immersione e quando intiepidita, spalma la crema su dei triangoli di pane tipo, civraxiu, raffermo abbrustoliti irrorati con una carezza di olio… di Narcao naturalmente. Vino consigliato: Prima macerazione, dal sapore morbido e leggermente frizzante, grazie alla particolare tecnica di vinificazione della macerazione carbonica, buona persistenza con aromi di frutti rossi.
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