di Dario Frau
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Prima del 1960, quando l’acquedotto ancora non era stato costruito, le casalinghe di Pabillonis, come gran parte di quelle sarde, per lavare la biancheria, si recavano, al fiume. Ma anche dopo che la rete idrica comunale portò l’acqua nelle case, e molte famiglie si organizzarono collegando un rubinetto a una vasca in cemento, o vicino a una pietra piatta, poste nel cortile della propria abitazione, che permetteva di avere l’acqua necessaria per fare il bucato, il lavaggio dei panni nel fiume, non terminò. E questo non finì, neppure dopo il boom economico che aveva permesso la produzione industriale di tanti utensili ed elettrodomestici, tra cui la lavatrice, che non interessò, però, subito, la maggior parte delle famiglie pabillonesi e per questo motivo, nei primi anni ‘60, alcune donne si recavano ancora al fiume per fare il bucato.
La località preferita era un’ansa del fiume Bellu, vicino alle scale dell’argine, in zona Su Rieddu. Ma non solo, soprattutto quando pioveva, si andava anche sotto il ponte sulla strada provinciale che collegava il paese con Guspini in sa gora de is Arrieddus, vicino alla strada per San Gavino e nei pressi del mulino di Pepi Ortu, nella gora di Surbiu, che sgorgava da una sorgente perenne, e ancora in sa gora de sa Mitza de Is Piscinas e anche in sa cora de Su Rieddu, un piccolo corso d’acqua che proveniva da fonti risorgive, in prossimità de sa Tanca Guglielmo Saba. Questo ruscelletto, che scorreva alla periferia del paese, nei pressi dell’asilo, attraversava la strada in direzione de sa Mitza de Su Rieddu, il suo letto, poco profondo, permetteva il guado a carri e bestiame, ma le lavandaie per evitare che il passaggio di questi, intorbidisse l’acqua e sporcasse i panni, si mettevano più a monte del guado. Per i pedoni era stato realizzato nella seconda metà dell‘800, un ponte in mattoni rossi, con un basso parapetto. La struttura venne poi distrutta negli anni ‘70/80’ del secolo scorso, il corso d’acqua, invece, venne canalizzato e intubato e terminava il suo corso nel Riu Malu. La strada sopra il guado permetteva di raggiungere agevolmente gli orti, le vigne e i frutteti impiantati nell’area fertile tra Sa Mitza e l’argine del fiume Bellu.

Il lavoro delle lavandaie era duro e faticoso e s’iniziava giovanissime. «Ho incominciato che avevo appena 12 anni», ricorda Chiara Cossu, 86 anni, che fino alla data del matrimonio (1956) aveva “lissias” (il lavaggio della biancheria a pagamento) di varie famiglie del paese. Ma anche dopo il matrimonio continuò a recarsi al fiume per fare il bucato della famiglia: «in quel tempo non avevamo alternative, bello o cattivo tempo, freddo o caldo, inverno o estate, bisognava andare al fiume per lavare i panni, anche quando si era incinte: la primogenita è nata due giorno dopo che sono andata a lavare al fiume, quasi quasi partorivo lì», ricorda signora Chiara.

Il lavoro veniva svolto per due/tre volte la settimana, a seconda del numero degli accordi, per lo più annuali, stabiliti tra i contraenti e della quantità dei panni da lavare. Una lavandaia, soprattutto ragazze nubili o vedove, ma anche donne sposate) che aveva necessità di guadagnare qualcosa, poteva avere anche 2, 3 e anche 4 lissias che le impegnava tutto l’anno. Qualcuna ne faceva anche di più. «Io sono arrivata anche a 7 lissias, ho iniziato a 15 anni, prima andavo con mia madre Vitalia, poi da sola, le postazioni nel fiume cambiavano per diversi motivi: d’estate si andava generalmente vicino all’argine de Su Rieddu, quando “cabada su frumi”, però, e la corrente era fortissima, oppure quando pioveva ci recavamo sotto il ponte», precisa Peppina Manca, 86 anni, che ancora oggi ha tanti ricordi di quel periodo.

L’anziana mette in evidenza anche le difficoltà delle donne, in particolari situazioni: «ricordo che per recuperare le particolari pietre larghe che servivano per lavare i panni, trascinate dalla corrente, dopo la piena del fiume, si organizzava una cordata umana tenendoci per mano e uscivamo dall’acqua, fradice. Molte lavandaie, quando il fiume era in piena e, sotto il ponte,

non c’era posto, andavano anche in sa Mitza de Is Piscinas dove c’era un canale, in cemento, con le pareti inclinate, adatte per lavare, che raccoglieva l’acqua de sa Mitza. Certe volte, la scelta delle postazioni, causava delle dispute tra noi, poiché chi lavava i panni a valle, più giù, riceveva l’acqua sporca di chi lavava a monte; però spesso, ci si metteva d’accordo e per il risciacquo veniva concesso il permesso di spostarsi dove sgorgava l’acqua pulita. «La postazione sotto il ponte era molto frequentata e attirava anche i giovanotti del paese che seduti nel parapetto, facevano apprezzamenti galanti alle più giovani: «soprattutto ad alcune ragazze di Morgongiori che erano a servizio presso alcune famiglie benestanti del paese, ma non tutte le lavandaie apprezzavano questi intrusi, poiché per pudore e imbarazzo non potevamo lavare i capi intimi femminili davanti a loro e dovevamo lavarli di nascosto, quando gli uomini andavano via», racconta Chiara Cossu sorridendo.

Al fiume si andava anche d’inverno, l’acqua gelida non scoraggiava le lavandaie che escogitavano qualche accorgimento per cercare di attenuare il freddo: «mi fasciavo le gambe con degli stracci, ma serviva poco: le gambe e le mani erano intirizzite e di color viola quando uscivo dall’acqua», rimarca Chiara Cossu. Anche Maria Cruccas, 94 anni, che iniziò questo lavoro all’età di 11 anni, ricorda questa consuetudine: «furono le donne più grandi che mi suggerirono questo accorgimento, avevo freddo, ma se non altro si evitava che l’acqua ghiacciata del fiume arrivasse in modo diretto nella pelle; un altro inconveniente erano le sanguisughe, soprattutto nell’acqua bassa, all’inizio mi spaventai e mi davano fastidio, poi mi abituai anche se non era certamente piacevole staccarle dalla pelle».
Il compenso? In paese la paga era quasi simile anche se si differenziava a seconda del buon cuore delle famiglie committenti. Generalmente erano poche migliaia di lire all’anno che venivano pagate anche in rate mensili. Elisa Manca, che di anni ne ha compiuti ben 97, ricorda tanti particolari di quel tempo: «Ho iniziato a 9 anni, prima andavo con mia madre Vitalia, poi da sola, poiché andai a servizio presso diverse famiglie benestanti del paese. La prima paga che ricordo è stata di 20 lire! A me sembrava anche molto! Era dura a quei tempi! Ancora ragazzina “mi accodrai” come “serbidora” in una famiglia di piccoli proprietari e facevo tanti lavori tra cui, due tre volte la settimana, anche il bucato, nel fiume Bellu, nell’argine di Su Rieddu e nella mitza de Is Piscinas; la biancheria era tanta e dopo averla lavata la stendevo nei cespugli di rovi e giunchi e la riportavo asciutta a casa della “signora”, che signora proprio non era, poiché quando andavo a fare qualche giornata per altre persone , mi costringeva a dividere la paga: metà a me e metà a lei. Anche quando andavo a spigolare pretendeva la metà delle spighe raccolte: erano tempi duri, allora!», commenta l’ultranovantenne.
La maggior parte delle donne faceva “sa lissia” soprattutto per le famiglie benestanti, ma non solo, le donne che avevano appena partorito o erano malate, o avevano figli piccolissimi dovevano pagare lavandaie per il bucato. Qualcuna però, per i figli, si arrangiava in altro modo. «Io insieme a due vicine di casa che avevamo figli piccolissimi, facevamo a turno: quando io andavo al fiume i miei figli venivano accuditi dalle vicine e lo stesso succedeva quando erano loro a essere impegnate nel bucato: ero io, allora, che controllavo i loro figli», afferma Chiara Cossu.
Verso il fiume si partiva la mattina presto, qualche volta, in piccoli gruppi, ma non era raro che andassero anche da sole. «D’estate m’incamminavo alle 5 del mattino, per arrivare tra le prime e accaparrarmi la pietra migliore», dichiara Maria Casu, 80 anni, che iniziò questo lavoro all’età di 15 anni, «soprattutto per il bucato di famiglia, essendo io la più grande».
Il tragitto si eseguiva con passo lesto, senza effettuare soste. Il percorso più lungo era la zona dell’argine del fiume Bellu. Dalla mitza di Su Rieddu, si percorreva una strada campestre incassata tra canneti, arbusti e cespugli sempreverdi, alberi di olmo e piante di fichidindia che creavano una sorta di galleria vegetale. Il posto era, infatti, fertilissimo, ricco di acqua e di terreno alluvionale dovuto alle inondazioni del fiume, che nel passato, privo di argini, allagava i terreni di questa zona che erano, e sono ancora oggi, i più adatti per orti, vigne e frutteti. E così, nella strada in terra battuta di Su Rieddu, le donne, con in testa sa “scivedda” e in seguito, anche la bacinelle in ferro zincato, piene di panni da lavare, poggiate sopra su “tidibi” (uno strofinaccio arrotolato in testa) per attutire il peso e mantenerle in equilibro, percorrevano la strada campestre verso il fiume, accompagnate dai figli che, con l’allegria propria dell’età infantile quasi fosse una scampagnata.
I più grandicelli dovevano aiutare le mamme a trasportare l’occorrente per lavare la biancheria. Ma qualche volta le donne con figli piccolissimi, non avendo qualcuno per accudirli a casa, li portavano con sé, al fiume. «Mi ricordo che tzia Regina, una donna minuta, ma fortissima, che aveva molte “lissias allenas” e non voleva perdere quelle poche lire che percepiva, portava con sé il figlio di un anno e mezza dentro “su cadinu” (una cesta di canne e rami di olivastro intrecciati) posato sul “titibi” e, in perfetto equilibrio, percorreva il tragitto fino al fiume, tenendo sa scivedda della biancheria poggiata sulle anche», riferisce tzia Maria Cruccas. Ma non era la sola a portare i piccoli con sé al fiume. «Un giorno avevo da fare una “lissia” molto consistente e dovevo per forza lavare tutti i panni e non sapendo con cui lasciare mia figlia Gianna di pochi anni, la portai con me, ma a metà giornata la piccola si mise a piangere con insistenza e io infastidita poiché dovevo interrompermi spesso, a un certo punto le diedi anche una sculacciata per farla zittire e per calmarla», rammenta Chiara Cossu.
Al termine della strada campestre, simili a un bastione che nascondeva la veduta del corso d’acqua, apparivano gli argini del fiume. Questi erano stati realizzati negli anni 1925/1926 per bloccare gli allagamenti dei terreni e delle strade circostanti e qualche volta, anche la periferia del paese. Per superare l’argine, alto circa due/tre metri, era stata costruita una scaletta in cemento che facilitava il raggiungimento della sommità e dopo una cinquantina di metri percorsa la golena, ricca di vegetazione, composta da qualche albero di abiu, olmo e soprattutto cespugli di menta selvatica, rovi, giunchi e “sinnigas”, si arrivava al fiume.
La scaletta, per i ragazzi, era un divertimento poiché si lasciavano scivolare sulle spallette laterali, questo rappresentava un gioco eccitante e una prova di equilibrio e destrezza. Arrivati al fiume, ogni massaia, sceglieva la postazione de “Sa pedra po sciacquai”: una pietra, abbastanza grande e piatta, che posizionata inclinata, fungeva da lavatoio. «Quando le pietre non bastavano, poiché le donne erano tante, si capovolgeva sa scivedda e il fondo fungeva da piano per lavare», aggiunge Maria Casu. Procedevano quindi al lavaggio con l’acqua che scorreva, trasparente e pulita. I panni, posati sulla pietra inclinata, venivano sfregati con il sapone, sbattuti più volte nell’improvvisato lavatoio, risciacquati nell’acqua corrente,di nuovo insaponati e definitivamente risciacquati fino a quando non erano puliti. Durante il lavoro, le donne chiacchieravano, raccontavano storielle divertenti, qualche pettegolezzo paesano e qualcuna anche cantava. I ragazzi, nel frattempo, pescavano con un fazzolettino i pesciolini nelle acque basse del letto del fiume pieno di ciottoli oppure nuotavano. «Qualche mamma ne approfittava anche per fare loro il bagno: li spogliavano, lavavano i loro vestiti, li mettevano ad asciugare, e dopo rivestivano i figli», aggiunge Elisa Manca.
Man mano che i vari capi della biancheria venivano lavati, si poggiavano ad asciugare, in modo che il carico delle sciveddas fosse meno pesante, con dentro la biancheria asciutta, al ritorno in paese. «Ma quando il bucato non era asciugato, per il cattivo tempo soprattutto, si divideva il carico e dovevamo fare due viaggi: io ero fortunata, mia sorella Evangela più piccola di me mi aiutava a portare una parte del carico», puntualizza Maria Casu.
La maggior parte delle donne lavorava tutto il giorno e si fermava solo per un frugale spuntino (pappai u’ mossiu e pani), poi nel tardo pomeriggio si preparava il rientro. Le massaie ritiravano i panni asciugati, si preparavano su “tidibi”, su cui si posizionava sa scivedda per essere trasportata, e con portamento eretto, iniziavano la ripida salita e la discesa della scaletta dell’argine, e senza fare alcuna sosta, in gruppo, scambiandosi gli ultimi pettegolezzi della giornata, o da sole, percorrevano la strada del ritorno e si rientrava alle proprie abitazioni.
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