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ATTUALITÀ

Pasca Manna: ricordi d’infanzia di Agnese Liscia

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di Maurizio Onidi

Agnese Liscia, novantadue anni, portati benissimo, vedova di Silvio Mancosu, comunista fervente,  uno dei sindaci più amati dalla comunità guspinese e rispettato anche dagli altri schieramenti politici. Nota per il suo impegno politico e per le lotte a favore delle donne, sempre disponibile nei confronti degli altri, con lucidità e proprietà di linguaggio, ci racconta come ci si preparava alla Pasqua negli anni della sua infanzia. «Quando ero bambina nella nostra famiglia di credenti e praticanti due avvenimenti  annunciavano l’inizio della quaresima, il primo era rappresentato dal ritiro della salsiccia e del lardo appeso ad essiccare nella cucina, per rispettare la liturgia che imponeva in tale periodo di penitenza il digiuno in particolare delle  carni grasse. Il secondo avvenimento aveva come protagonista il maialetto. È opportuno precisare questo momento perché in quel periodo (anni 30/40) era molto sviluppato il baratto a causa della scarsità di circolazione monetaria in particolare nel mondo agropastorale. Ricordo a esempio che il pastore dava tre chili di formaggio per avere un litro d’olio d’oliva, prodotto allora molto ricercato e raro tenuto conto che da una molitura  (70/100 chili di olive ndr) si ottenevano massimo sette/otto litri di olio e che un litro bastava per tutto l’anno in una famiglia perché si faceva molto uso dello strutto.  Il pastore pagava con 3 chilogrammi di formaggio l’affitto di un pascolo di “u moi de terra” (quattromila metri quadri ndr).  Tornando al nostro maialetto, essendo la nostra una famiglia di contadini, alcune nostre terre non utilizzabili per la coltivazione dei cereali, venivano affittate a degli allevatori che ci pagavano con un maialetto appena nato  che non essendosi attaccato subito alla mammella della scrofa a causa dell’elevato numero di lattonzoli partoriti, rischiava di morire di li a poco. Questo animaletto veniva preso in cura da mia madre che lo avvolgeva in un manto di lana e lo teneva al caldo nei primi giorni di vita, alimentandolo con il latte, con la speranza che sopravvivesse perché in tal caso sarebbe stato allevato e avrebbe contribuito al sostentamento della famiglia. Ogni qualvolta nelle famiglie si faceva il pane in casa, si metteva da parte una manciata di semola che sarebbe servita nella settimana santa per preparare “su coccoi e su coccoreddu cun s’ou” per la festa mentre negli altri periodi dell’anno si utilizzava anche la farina di granoturco mentre il dolce (gattò) veniva preparato con delle mandorle frantumate che venivano mescolate allo zucchero caramellato.
La famiglia stessa educava i figli al rispetto delle liturgie della chiesa e delle  tradizioni. A proposito di tradizioni gli anziani ci ricordavano che se durante la settimana santa avesse piovuto, sarebbe stata una pessima stagione per i fichi. Le liturgie della settimana santa erano molto partecipate dai fedeli in particolare quelli del  venerdì  santo quando il silenzio delle campane in segno di lutto,  veniva sostituito dal gracchiare “de sa zaccarredda” che i ragazzi portavano  in giro per le strade del paese per scandire le ore. Nella cappella del sepolcro che veniva allestita oltre a “su nenniri” facevano bella mostra due damigianette nelle quali veniva versato l’olio offerto dai fedeli che veniva utilizzato per la lampada del Santissimo Sacramento.  Un altro momento di particolare partecipazione era rappresentato dalla deposizione del corpo di Gesù crocefisso dalla croce.  Da quel momento mio padre che era “cravariu” (capo della delegazione della confraternita, restava nella chiesa  con gli altri componenti della congregazione per  vegliare il corpo di Gesù fino alla sera del sabato santo quando durante i riti pasquali si annunciava  la resurrezione.
La mattina di Pasqua, nel pieno rispetto della tradizione, tutta la famiglia faceva colazione con qualche fettina di salsiccia e un pezzetto di “coccoi” per scongiurare il favismo. Sempre in quella mattinata visto che mio padre era impegnato nelle processioni “de s’incontru”, mia madre andava nella nostra campagna di “Murera” per accudire i nostri due  buoi che venivano utilizzati principalmente per arara con l’aratro di legno. Terminate le cerimonie religiose, la festa continuava con  il pranzo pasquale che comprendeva un galletto ruspante allevato in casa “su caponischeddu”, delle fette di lardo e si finiva con il gattò di mandorle. Al pomeriggio chi poteva permetterselo, secondo tradizione si andava a mangiare le arance nel frutteto di “Nasieddu Mruscia” in via Amedeo d’Aosta ora via Don Minzoni mentre fino agli anni cinquanta non ricordo che si usasse fare la gita per pasquetta».

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