di Mauro Marino
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Il sistema previdenziale italiano di cui si parla molto solamente in occasione di campagne elettorali, dove vengono promessi interventi che per esigenze di bilancio non possono essere mantenuti e in prossimità della Legge di Bilancio di fine anno dove vengono approvate solo piccole modifiche di “maquillage” che non modificano la struttura dell’impianto esistente, viene poi completamente dimenticato per molti mesi perché si tratta di affrontare argomenti spinosi e delicati e che impattano violentemente nella vita di tutti i cittadini. Anche quest’anno, passate finalmente queste benedette elezioni europee che hanno completamente paralizzato decisioni importanti su questo tema, si affronteranno in autunno solamente alcuni argomenti che riguardano la pensione anticipata come Quota 103, Opzione Donna e Ape Sociale che scadono il 31/12/2024.
Questo modo di up and-down di affrontare una problematica così impattante per la vita dei cittadini non è certamente un fatto positivo perché accennare a tali argomenti durante i talk-show o in qualche intervista e poi dimenticarsene fa solo nascere nelle persone dubbi, preoccupazioni e incertezza sul loro futuro. Affrontare tale problematica con provvedimenti spot, prorogati di anno in anno, invece che approvare una riforma strutturale e duratura che permetterebbe alle persone di programmare la propria vita scegliendo il momento che loro ritengono più opportuno per lasciare il mondo del lavoro, è da irresponsabili e non si può accettare tale condotta da politici di un grande Paese europeo. Decine di articoli scritti in maniera “terroristica” su molti giornali soprattutto on line dove si prospetta il crollo del sistema previdenziale italiano e dove di ipotizza il rischio di una prossima “bomba sociale” non fanno un buon servizio alla collettività e soprattutto non sono reali sulla situazione che stiamo vivendo attualmente.
La prima cosa essenziale da affermare per sgombrare dubbi ed incertezze è che, al momento, il sistema previdenziale italiano è sostenibile e lo sarà anche nei prossimi anni ma a condizione di avere la forza e la lungimiranza di effettuare in futuro qualche sostanziale cambiamento. Nel passato ci sono state molte situazioni che hanno appesantito in termini economici questo sistema previdenziale, come per esempio le baby pensioni che permettevano ai dipendenti pubblici di andare in pensione con venti anni di contributi se uomini ed addirittura quindici anni se donne coniugate, il cui costo totale di tale istituto è stato di oltre 250 miliardi di euro di cui ancora sette erogati nell’ultimo bilancio dello Stato ed ancora il sistema retributivo dove il pagamento della pensione non avveniva in base ai contribuiti versati ma veniva erogato sulla base della retribuzione del dipendenti, nonché una miriade di concessioni previdenziali a molte categorie di lavoratori, ma nonostante tutto il nostro sistema attuale definito a ripartizione (chi versa i contributi previdenziali provvede al pagamento di chi è già in pensione) fino ad ora ha retto.
Questo è successo perché tale sistema (che ormai è in vigore da quasi ottanta anni) per essere in equilibrio abbisogna che vi siamo molti lavoratori che versano contributi previdenziali e in proporzione pochi pensionati. In pratica per mantenere i conti della previdenza sempre in positivo servirebbero quasi due lavoratori per ogni pensionato e questo rapporto per molti anni è stato mantenuto in maniera costante perché i pensionati sono stati sempre molti meno rispetto ai lavoratori attivi. Poi con il passare dei decenni i pensionati sono costantemente aumentati e già ora ci troviamo con un rapporto di 1,43 su 1. Le proiezioni degli analisti previdenziali ci dicono che questo rapporto tra una ventina d’anni sarà sceso pericolosamente a 1 su 1 (un lavoratore per ogni pensionato) e la tenuta del sistema a quel punto sarebbe pericolosamente a rischio.
I motivi principali che hanno determinato tale situazione sono la diminuzione costante di nuovi nati (nel 2023 sono stati un terzo di quelli nati nel 1964) e l’aumento dell’aspettativa di vita. Il discorso sulla natalità che riguarda tutti i Paesi della UE ed anche in generale tutti i Paesi Occidentali è molto complesso perché si è visto che soprattutto nei Paesi con economie forti non basta implementare i servizi e le agevolazioni per le giovani coppie, che pure sono necessari, ma bisogna anche accettare con serenità che molte persone per loro rispettabilissimi motivi non possano o non vogliano mettere al mondo dei figli o ne vogliano fare solo uno per coppia. Poiché, inoltre, se si mettessero al mondo dei figli questi potrebbero entrare nel mondo del lavoro non prima di venti/venticinque anni bisognerà incrementare notevolmente il numero di flussi regolari di cittadini extracomunitari per far fronte alla carenza di versamenti contributivi.
Il sistema a ripartizione per essere in equilibrio è tarato su una durata della corresponsione dell’assegno previdenziale di circa venti/venticinque anni per cui è del tutto evidente che l’aumento dell’aspettativa di vita, che ovviamente è un aspetto molto positivo, con il passare degli anni mette dal punto di vista contabile il sistema in difficoltà. Inoltre, l’introduzione negli anni Settanta del “welfare state” e la sua progressiva implementazione hanno notevolmente appesantito la previdenza di costi che invece andrebbero addebitati alla fiscalità generale. Abbiamo affermato in moltissime occasioni e diversi esperti di previdenza lo confermano, che il primo punto da approvare per una eventuale riforma previdenziale strutturale è la separazione tra previdenza ed assistenza. Sono due istituti completamente diversi e che non devono, come invece avviene da sempre, essere accorpati. La previdenza si deve reggere sui contribuiti effettivamente versati dai lavoratori mentre l’assistenza, pur assolutamente necessaria, deve essere a carico della fiscalità generale e deve essere finanziata con le tasse e le imposte versate da tutti i cittadini. Finché continueremo a conteggiare la cassa integrazione, il reddito di cittadinanza o di inclusione sociale, le pensioni al minimo, le pensioni/assegni sociali ecc. ecc. insieme con i versamenti dei contributi previdenziali avremo un costo che unito a quello effettivo della previdenza è di oltre il 15% del PIL e, con i pensionamenti dei boomers nei prossimi anni, questo rapporto aumenterà progressivamente fino al 2040 quando raggiungerà il 17% del PIL, per poi iniziare una lenta decrescita. Separando questi due istituti il rapporto sul PIL scenderebbe a meno del 12% del PIL perfettamente in linea con gli altri Paesi Europei a dimostrazione di come la previdenza presa singolarmente, anche per effetto dell’incremento dei lavoratori attivi che si è avuto in questo 2024, sarebbe anche in futuro in grado di reggersi autonomamente. Gli stessi effetti dell’aumento nei prossimi anni della spesa previdenziale che raggiungerà i 368 miliardi nel 2027 sono dovuti principalmente all’inflazione che, anche per effetto degli interventi della BCE, per fortuna sta rallentando la sua corsa.
In ogni caso qualche correzione è necessaria e non dovrà sicuramente essere quella di pensare di aumentare ancora l’età per accedere alla pensione ormai arrivata al limite e le continue morti sul lavoro di over sessanta lo stanno a dimostrare, bisogna invece, cominciare a ragionare su un sistema diverso rispetto a quello a ripartizione che per i motivi sopra esposti non sarà più sufficiente a garantire a tutti una equa pensione. Poiché il mondo del lavoro in ottanta anni è completamente cambiato complice anche l’introduzione dei robot e dell’I.A. dobbiamo, prendere in considerazione un sistema misto a ripartizione/capitalizzazione perché è impensabile nel 2024 non investire e implementare l’enorme massa di denaro dei versamenti contributivi, soprattutto se vogliamo evitare che i nostri giovani siano costretti a rimanere nel mondo del lavoro oltre i settant’anni di età percependo poi una pensione che sarà il 50% del loro stipendio.
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