di Sergio Portas
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Nel Vangelo di Matteo tra beati sono anche i miti, perché erediteranno la Terra. Ed è in essa che vivranno il loro Paradiso (questo lo penso io). E’ di questa genia di persone che sono fatti i personaggi che occupano le pagine dei libri di Savina Dolores Massa, che dire di lei, quelli del “Maestrale” che hanno pubblicato anche il suo ultimo libro: “Lampadari a gocce”, nella seconda di copertina così la presentano: “Nasce e vive a Oristano in Sardegna. Scrittrice di narrativa, poesia, testi teatrali, regista, cantora. Operatrice culturale. Cura laboratori di scrittura creativa e di propedeutica alla lettura orale.
Collabora da anni con il Centro di Salute Mentale, la Biblioteca Comunale, il Centro di Servizi Culturali della sua città. Nel “tempo libero” gioca a fare la musicista, la sarta di quadri, le metamorfosi in viaggio del proprio cortile, l’amica di tre cani, cinque gatti e una tartaruga d’acqua di ventisette anni. È presente in numerose Antologie di racconti e di poesie…”. In una intervista a Max Ponte su “Tottus in Pari” del febbraio di sette anni fa i tre cani sono bianchi, i gatti sono sette, la tartaruga che “ancora un poco e dovrò sistemarla nella vasca da bagno”. “Ho molti ragni: sono restia alle pulizie in grosso e anche in magro. Preferisco scrivere, sono felice solo svolgendo questo atto. Non cerco l’immortalità per me, ma per le mie creature sì, perché hanno patito molto e meritano un ricordo. Tornando agli animali, ho anche molte conchiglie, e anche se non domandano cibo io ne sento la voce e la vita. Poi ho un cranio di pecora e un cucciolo defunto di manta marina. Nel grande cortile di questa casa ho sepolto tanti piccoli compagni dei miei giorni. Perfino un pesce rosso battezzato Tovagliolo. Certi giorni di delirio vorrei disseppellirli e posarli accanto alla mia collezione di cavalli di legno”.
Savina Dolores Massa è così: prendere o lasciare, non c’è spazio per le mezze misure, mi schiero con lei nel club di coloro che non sono mai andati a dormire senza un libro per compagno, che hanno letto compulsivamente di tutto. “Anche molti gialli e tanta fantascienza. Anche fumetti porno” (continuo a far parte del club). Non me ne vorrà se, della sua produzione romanzesca, preferisco il “filone sardo” di “Mia figlia follia”, “Il carro di Tespi”, e quello che amo di più: “Cenere calda a mezzanotte”, tutti editi da Maestrale di Nuoro, di quest’ultimo “Lampadari a gocce” mi varrò della maestria critica di Alessandra Pigliaru che sul “Manifesto” del settembre scorso ne ha scritto a titolo: “La traversata è il gioco della scrittura quando interroga anime notturne”.
“Una nave chiamata Casta Diva, impossibilitata a ripartire e ormeggiata nei pressi di Gibilterra, è la dimora di venti marinai. Lo scenario che dà avvio al nuovo romanzo di Savina Dolores Massa…come in altri suoi lavori emerge una mescolanza che intorpidisce tra visibile e invisibile e che, nelle sue mani, diventa duttilità generativa tra pensare e sentire, nel solco che da Cristina Campo fa sponda con Maria Zambrano…Perché in fondo è questo che dà la stoffa nascosta della sua scrittura, conduce la parola al limite di un realismo magico ammonendoci si tratti dell’altra parte di un’esperienza diretta del mondo, fatto di spettri con cui fare amicizia, presagi poco indulgenti e ossessioni che ne slaccino la dittatura terrestre per aprirsi una visione di presenze anarchiche sottilissime”.
Insomma Savina è capace di far parlare i morti. Nel suo primo libro pubblicato: “Undici”, del 2008, si prende carico di dar voce ai naufraghi di una barca di sei metri, senza nome e senza bandiera, ritrovata da un pescatore a largo dei Caraibi. “Il pescatore chiama la Guardia Costiera. Alle sei della sera, la piccola barca bianca, trainata da una motovedetta, entra nel porto di Bridgetown. A bordo ci sono i corpi quasi mummificati di 11 giovani uomini neri” da un articolo di Giovanni Maria Bellu su “Repubblica” del 4 giugno 2006 a titolo: “Barca di clandestini africani arriva ai Caraibi dopo quattro mesi nell’Atlantico”. In “Mia figlia follia” Maddalenina, “sa macca”, la matta del paese che tutti apostrofano con un preventivo: “vattene!” che non la vogliono si avvicini troppo ai “normali”, manco avesse la rogna, per avere una qualche interlocuzione si reca ogni giorno in visita a Maria Carta, la vecchia guaritrice, sempre seduta all’ombra di un susino secco, che non le risponde mai a parole.
“Sono stata bene, in giro, nessuno mi ha detto, Vattene a casa. Non mi piace quando c’è troppa gente e io ho quella speranza che qualcuno non mi dica, Vattene a casa, ma mi dica, E come stai Maddalenina? Vieni a casa a farmi una visita, Maddalenina. Uno di questi giorni passo da te a bere il caffè e a guardare i tuoi celtrini, Maddalenina” (pag.37). Ne scriveva sulla “Nuova” Claudio Piras Moreno, ogliastrino nato a Lanusei nel 1978, giardiniere, manovale, lavoratore a cottimo in Spagna (Moreno è il cognome della nonna sevillana), metalmeccanico a Olbia, di recente anche portiere di notte (turnante) in un villaggio turistico: “Recensire un romanzo di Dolores Massa non è per niente facile…nei suoi libri una scrittura lirica ed evocativa, cruda e sarcastica fa da corollario a tematiche sociali importanti…Mia figlia follia è permeata da un’atmosfera surreale e metafisica, eppure plausibile, grazie a una scrittura che richiama alla mente il realismo magico di Marquez, ma di una natura del tutto nuova che affonda le sue radici nella nostra Sardegna… Maddalenina è troppo innocente per capire la cattiveria e alla fine è il lettore a sentirsi triste e arrabbiato in sua vece, non senza un senso di colpa, perché anche chi legge, pur essendo empaticamente vicino a Maddalenina, sa che ad averla davanti ne proverebbe schifo…Questo romanzo ci ferisce con le nostre stesse armi, quelle con cui ci proteggiamo dal resto del mondo, forse perché ci spaventa. Che sia contagiosa la miseria? Forse lo è la “follia”. Per non rischiare, meglio tenersene lontani”.
Savina invece è lì che trova la vena d’oro che rende preziose le pagine dei suoi racconti, lì che la usa, la follia umana di voler vivere per sempre, a mò di lievito madre che fa gonfiare le storie che va raccontando. In quel di Aristànis, per lo più, in un tempo che la gente viveva come tra le quinte di un teatro, in cui tutti erano protagonisti di una commedia che si dipanava vivendo. In cui tutti conoscevano tutti, da generazioni, nel “Carro di Tespi”, Savina fa dire al suo protagonista A. G. (Antonio Garau, grande scrittore di commedie in lingua campidanese): “Aristànis tuttora è un covo di pettegolezzi, immaginatevi nel 1937 o ’34 che fosse: è lo stesso. Mi coglionarono alla grande, fui idiota, dimenticando come l’amore e lo starnuto non si possono nascondere: così mi diceva spesso il barbiere Mauretto, così, anche se non c’entrava nulla” (pag.152). Ma il più bello di tutti è “Cenere calda a mezzanotte”: “…Settembre fu un conforto per tutti…Dal primo del mese, come tradizione, processioni di donne e bambini infiorarono Ponti Mannu sopra il fiume, raggiungendo la chiesa del Rimedio per le novene. Alcune donne avanzavano inginocchiate in preghiera. I malati in fin di vita, trasportati su sedie da femmine molto peccatrici, si godevano dall’alto la vista del fiume e la rara soddisfazione di umiliare qualcuno. Maddalenina, una zitella svitata (proprio lei! ndr.) sognò che entro l’anno le sarebbe arrivato uno sposo. Per i sette giorni di novena percorse il ponte camminando al contrario, certa che le altre in fila volessero sputarle l’invidia sulla schiena: comprese le malsposate, le infedeli, le vecchie avvizzite, le piccoline nate senza innocenza” (pag.175). L’aveva detto a Max Ponte, Savina: “I miei personaggi sono ingovernabili, io conto poco, dormono quando vogliono, dialogano tra loro ignorandomi…Poi vengono a piangermi sulla spalla quando si accorgono del mio bisogno di dimenticarli. Maddalenina mi ha costretta a balbettare per mesi: non se ne voleva andare” (intervista cit.). Anche Maria Carta è magicamente trasmigrata in questo libro, il susino carico di frutti a fare ombra nel suo piccolo cortile, nella strada di Peppi Enna. Aggiusta le ossa Maria Carta: “Quando tocco un osso movi movi, mi sento bruciando le mani, e la troncatura resta miracolata! (pag. 204). E che lingua lunga le è venuta in questo libro, la vita passata a spettegolare con l’amica del cuore: Petronilla. Il cui mondo è segnato dal delirio di venir posseduta da Coittedda, il demonio, e dalla visione del fantasma di un seminarista che appare inopinatamente vicino al limone del cortile. E poi c’è Bonaria, uccisa giovane dal taglio di un vetro infetto. Antonio i tre figli e un intero vicinato, da quel giorno sono in lutto. E decine sono gli altri personaggi che si impongono con le loro particolarità e passioni, in un vorticare di entrate e uscite dal palcoscenico della vita. Ha detto di lei Alberto Masala: “Savina è poeta dell’imperfezione umana, dell’alterità dolorosa degli irregolari, generosamente irregolare lei stessa, orgogliosa e brillantemente marginale, perciò capace di una tale arte narrativa da poter adottare le risoluzioni più improbabili e dunque ancora più cariche di verità. La sua arte riesce ad elevare a luttuoso mito tragico, come a gioiosa leggenda satirica, perfino la superstizione popolare o la diceria pettegola di quartiere…La fluidità del suo canto non permette di staccarsi impunemente dalla narrazione; e se anche il lettore ci riuscisse tutto gli rientrerebbe in alluvione invadendo il territorio del sogno…In un gioco ininterrotto tra Memoria e Invenzione che intimidisce il Tempo e lo sospende in un turbinio non misurabile di dissolvenze per emanciparlo dalla cronaca pedante e farlo scivolare nell’atemporalità del percorso emotivo, nell’eternità. Come i grandi maestri del racconto: Kafka, Poe, Mahfuz,Rulfo…e le nostre nonne di Sardegna”.
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