di Giovanni Contu
Non credo che Anna Scalas nella sua vita abbia rilasciato molte interviste, incontrato spesso giornalisti o sia stata protagonista di conferenze organizzate per raccontare i fatti propri. Entro in farmacia, scorgo da basso la sua presenza e chiedo ad Andrea, il figlio, di poterla incontrare. La famiglia come quasi sempre accade, in farmacia e in casa, è riunita. Mi accolgono affettuosamente, come è loro abitudine verso chiunque, molto più per temperamento che per cortesia formale. Anzi, formalità e convenevoli per loro hanno poca importanza. Come se fossi di casa mi chiama e mi avvicino alla scrivania dove lei siede, davanti al computer, stando bene attento a non interferire sul via vai di persone e sul ritmo di lavoro ma soprattutto, cosa ben più importante, sulla discrezione personale, che per loro è sacra.
Signora Anna mi offre il caffè, mi siedo e mi sento assolutamente a mio agio. Lei prende una sigaretta e ne accenderà qualche altra mentre parliamo, da qui a un’oretta scarsa, la durata del nostro incontro in una luminosa mattina di aprile. Sapevamo entrambi che le avrei rivolto qualche domanda per un articolo e arriviamo subito al dunque. Guardiamo fotografie, fotocopie di vecchi documenti, appunti scritti su vecchie agendine e intanto cominciamo a parlare. Ogni tanto, fino a quando proprio devo andare via, di fronte ad una leggerezza o commento banale da parte mia, si libra nell’aria un soave improperio ma con un tono pedagogico, mai volgare, alla Prèvert. Durante tutto il nostro colloquio il telefono squilla ogni cinque minuti.
Anna Scalas è una donna che ha superato i settanta ma tiene bene le redini, di una famiglia e svolge informalmente quello che si chiama “gestione delle risorse umane” nel gruppo di persone – figli compresi – con cui a vario titolo e più o meno frequentemente, trascorre l’intera giornata. Commessi e dipendenti si dedicano al lavoro nella farmacia che, dai primi del ‘900, porta il suo cognome. All’attenzione dei serramannesi risulterebbero assolutamente superflue le parole sui rami di parentela, la storia di famiglia e l’originalità dei tratti caratteriali nei suoi avi. Per una descrizione di questo tipo, ritengo che – si parva licet – siano sempre valide e attualissime, le parole pubblicate ne I Cabilli, di Vico Mossa, amico d’infanzia di suo padre, dott. Nuccio e quelle di Luigi Muscas in Scorci di vita paesana. Non indugeremo perciò sul profilo di colui che, con l’incipit interrogativo “7×8” apriva un dialogo.
L’intenzione è perciò quella di raccontare qualcosa sulla donna Anna Scalas, una madre che ha ricevuto un’importante eredità professionale, l’ha mantenuta più che dignitosamente nel corso di quattro decenni e che oggi accompagna i propri discendenti, nella quarta generazione per proseguire nell’attività di famiglia della quale lei rimane senza dubbio l’anima e il punto di riferimento principale. Oggi, anche fisicamente, ha lasciato il bancone per trascorrere più tempo dietro le quinte. Conosce bene il suo mestiere; per i figli e per i nipoti la sua esperienza è un bene preziosissimo. La sua famiglia, per i serramannesi era quella di dott. Nuccio, di cui sappiamo quasi tutto, e prima di lui, di suo nonno, Tommaso che non era originario di Serramanna, esatto ?
Si. Mio nonno che non ho conosciuto era figlio di un insegnante originario di Burcei. Scriveva poesie; me ne viene in mente una, “Sa maista e su scolareddu”, carina, quella del bambino, il “piccoletto Mura …perché a scuola tu non venuto sei ? mio padre a letto con la callentura … e lui, il bambino doveva pascere gli “arbei”. Poi quella de “Su certu de is nadias”, componimento perduto, di cui ricordo il titolo e vagamente il tema, un tantino licenzioso, per l’epoca si intende; oggi farebbe sorridere.
Come fu la sua infanzia?
Sono stata, per otto anni, nel collegio cagliaritano della Purificazione. Erano i primi anni Cinquanta; le scuole medie qui a Serramanna non erano state istituite, quindi dopo le elementari andai in città per frequentare il liceo e l’università. Una prima giovinezza spensierata, come è normale che sia, con i genitori, amici e parenti.
A proposito di famiglia. Nella sua, due capifamiglia e molte donne intorno a loro. Probabilmente pochi conoscono il ruolo di sua madre, signora Pupa (Grazia Dessì); ce ne vuol parlare ?
Aveva una formazione artistica; studiò nella sua città, Cagliari, e poi svolse l’esame conclusivo di pianoforte nel conservatorio Santa Cecilia di Roma. Per il viaggio le fece compagnia uno zio frate. Parliamo degli anni Trenta; probabilmente avrebbe desiderato una carriera in campo musicale. Fino a quando le è stato possibile ed era libera partecipava alle iniziative culturali e ai bambini delle scuole insegnava la musica, il solfeggio e in occasione delle recite, il canto. Questa è stata una passione assolutamente condivisa con mio padre, che invece non ha mai preso una lezione di teoria musicale. Pure lui suonava il piano – se la cavava anche col violino, ma, come si dice, a orecchio. Mio padre ascoltava – e faceva ascoltare! – in particolar modo musica classica e di ogni concerto aveva diverse versioni per cogliere le più piccole differenti sfumature nella direzione ed esecuzione dei brani. Avevamo strumenti assolutamente all’avanguardia; per controllarli arrivavano i tecnici delle emittenti radiofoniche, suoi amici, che si trattenevano ore e ore. Ricordo benissimo le bobine chilometriche del Revox. Mia madre ebbe un ruolo importante nella professione di mio padre, trattava con i fornitori, con i clienti; insomma, una collaborazione efficace.
Come si conobbero con dott. Nuccio ?
Molto semplicemente. La sarta dove si serviva mia madre, fra il ’43 e ’44, era sfollata, come tanti altri all’epoca, qui a Serramanna. Capitò per caso in farmacia e in quella circostanza conobbe mio padre a cui non faceva difetto la capacità di relazionarsi con gli altri. L’incontro casuale venne propiziato dall’affinità e dall’entusiasmo sulla passione per la musica. E così fu.
Com’erano nel lavoro ?
Assolutamente diversi. A mio padre piaceva il suo lavoro; ma preferiva la musica e la fotografia; insomma l’arte. Era un sognatore. Ereditò la farmacia presto – il padre morì in giovae età – e in condizioni non facili, era il tempo di guerra. Arrivavamo dal periodo di autarchia e vi era pochissimo a disposizione. Le materie prime per la preparazione dei farmaci venivano reperite con difficoltà. Il denaro in circolazione era molto poco.
Si ricorreva al credito, e quindi spesso era necessario fare i conti con i debiti accumulati. Inoltre, alcuni anni più tardi, per i farmaci si aggiungeva una quota minima – quello che oggi si chiama ticket – ad esempio 100 lire – per la Citrosodina. Ebbene, mio padre, per natura e per visione del mondo, spesso sorvolava sulla riscossione dell’importo. Se consideriamo anche che L’Inam , la mutua di allora, pagava con mesi e mesi di ritardo, si possono intuire le difficoltà quotidiane. In questo contesto, se non fosse stato per mia madre, con i piedi per terra e con maggiore senso della realtà, capace di prendere in mano la situazione, molto probabilmente oggi la farmacia Scalas non esisterebbe. Lei nei confronti di mio padre si è rivelata molto spesso determinante nella gestione della farmacia dal punto di vista commerciale. Compensava il carattere istrionico e sognatore del marito. Hanno condiviso tutto; affetti, casa e lavoro.
E lei, da figlia, perché ha scelto la professione dei suoi avi ?
Io da piccola avrei voluto fare la biologa marina. Ma non erano maturi i tempi affinchè fosse accettata una donna impegnata nello studio del mare dal punto di vista biologico. Ho cominciato con l’aiutare mio padre, quando tornavo in vacanza, da piccolina con semplici attività; chiudevo le cartine, sistemavo i preparati chimici. Tutto è avvenuto in modo progressivo e graduale.
Da suo padre lei ha ereditato anche la passione per gli animali…
Eh, si. Mio padre aveva cominciato con due setter, da caccia, si chiamavano Don e Miss; abbiamo anche avuto un Fox terrier. Regalò, fra amici e conoscenti, molti bassotti, i cani che preferiva. Fino a non molto tempo fa, ancora vivevano discendenti, da molte generazioni, dei cani di mio padre. I progenitori da cui nacquero tutti, furono due esemplari che si chiamavano Carmen e Frillo. Noi figlie, e nipoti, abbiamo tutte ereditato anche la passione per gli animali. Quando da Nuoro tornai a Serramanna, portai con me un gatto, diventato poi coccolone di mia mamma. Era bianco; mentre lei lavorava a maglia lui si sdraiava, grande quasi quanto il tavolo della cucina e non la faceva lavorare perché seguiva lo scorrere del filo e con la zampetta colpiva i ferretti e il gomitolo. Adesso abbiamo tre gatti. Progetti per il futuro ?
Dovremo affrontare una sfida importante; ci prepariamo per trasferirci in una nuova sede, un po’ più avanti sulla strada principale del paese, a ridosso della chiesa di Sant’Angelo. Lasciare queste mura che ci hanno accolto per tanti anni, devo dire, un po’ mi dispiace ma proseguiremo l’impegno, nel nostro stile, con l’entusiasmo e la cordialità di sempre. E come si dice… speriamo bene !
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