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Cultura Il Personaggio

Serramanna, gli eroi di Pendio Grande, Antonio Ledda e gli Ulisse poveri della sua patria artistica

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di Paolo Salvatore Orrù
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Chi ha seguito il suo percorso artistico lo ha visto operare con le mani inzaccherate di cemento-argilla, ricamare stoffe, trafficare con crani di animali per ridargli vita con occhiali scuri, sciarpe e berretti alla moda (simboli di una Sardegna che scompare sotto il trash del Made in Usa o in China).  Tuttavia, le arti che lo hanno fatto emergere e conoscere sono la scultura e la pittura (è un muralista di chiara fama ndr).
Antonio Ledda non nasce scrittore: è uno scultore, un pittore, un performer che sente la necessità di lasciare un segno sulle pagine di un libro. Perché ha dentro di sé un nugolo di fantasmi-amici che lo implorano di farli resuscitare. Sarebbe una missione impossibile, ci vorrebbero secoli per far conoscere al mondo il volto o le storie di questi uomini utilizzando matite, colori o scalpelli. Il tempo è tiranno, bisogna fare in fretta, solo la scrittura può operare il miracolo.

Gli eroi dei suoi libri possono essere paragonati a una cicatrice inferta alla pietra, a un chiaro scuro tracciato con una matita su una tela. Ledda con il suo secondo libro, “I tempi che cambiano, Memorie di Rio Grande”, si mette in gioco senza pudicizie. Racconta gli Ulisse poveri, gli eroi umili, le storie vere dei veri combattenti, di chi non raggiungerà mai Itaca: perché il dolore, o l’assenza di memoria, o il fato, li hanno privati della consapevolezza.
L’autore non mena il can per l’aia con storie comode di nobili benestanti o di borghesi incorreggibili, che tanto una soluzione comoda la trovano quasi sempre. «Racconto i poveri, i braccianti che non riescono a sbarcare il lunario, le donne che vanno al mercato con poche risorse nel borsellino, ma poi riescono ad apparecchiare la tavola per pranzo e per cena. Sono i deboli che riescono a farsi voler bene», spiega a City@City Ledda, «e sono anche miei parenti, tutti, anche quelli che ad un certo punto finiscono in galera». Pendio Grande, che poi è l’alias di Serramanna, dovrebbe essere grata a questo artista, che con le sue brevi biografie ha reso eterni personaggi che altrimenti sarebbero caduti nell’oblio. «Sono storie un po’ autobiografiche: non ho fatto altro che raccogliere vicende di persone che ho conosciuto durante la mia giovinezza», racconta ancora Ledda: «Sono periodi che vanno dagli anni 50/60 e dagli anni 60/70».  Lo scrittore ha scelto di non nominare nel titolo del libro il suo paese, il vero protagonista di queste storie minime: «L’ho chiamato Pendio Grande, ispirandomi al titolo che Vico Mossa diede al libro che scrisse sui “cabilli”».

Pittore, scultore, performer, ora anche scrittore. «Perché, una volta andato in pensione, ho pensato di recuperare le tante cose che da sempre affollano la mia mente». Il grande Francesco Masala ha detto che ogni villaggio, anche quello più sperduto, è un microcosmo che rappresenta l’intero universo. Scrivere può diventare doloroso, soprattutto quando si ricordano gli affetti. «Soprattutto quando ho dovuto raccontare l’incredibile lavoro di mia madre per allevare una famiglia numerosa, la grande pazienza delle mie sorelle, mio padre, le peripezie di mio nonno». Fra i tanti protagonisti di questo libro, di questo Spoon River in prosa, ci sono personaggi che avrebbero fatto la felicità di tanti registi. Il signor Virdis, su Gonnesu, tzia Milla, Kikinedhu, il venditore di cibirus, tziu Saviu, tziu Antoi Asteri, tziu Bonifasiu, Peppucciu, Tarzanetu, Ervetziu, e gli altri, sarebbero potuti essere i protagonisti di un film di Giuseppe Tornatore, il regista di Malena, Cinema Paradiso, Baarìa. Il nonno di Ledda, Antoniccu, sembra invece uno dei personaggi nati dalla penna di un Giovanni Verga o di Grazia Deledda. La terra seppellisce tutti, ma se resta uno scritto, se le biblioteche e le librerie private conserveranno questi libri-testimonianza, un giorno tutti questi uomini resusciteranno e ci regaleranno un tuffo nel passato e un dolce “ferragosto al Poetto con il porchetto”. La vita prosegue: “Un salto, un passo e siamo nel futuro”.

A Serramanna Antonio Ledda, insieme a Luciano Lixi, Ferdinando Medda, Nello e Adriano Putzolu realizzarono murales con soggetti sardisti e socialisti (contro il colonialismo, contro le servitù militari). L’opera più nota è forse “il Murales degli incatenati”.

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