di Antonio Ledda
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Un giorno di fine primavera a metà degli anni 60, nel paese e in particolare fra noi ragazzi della scuola media, si sparse la notizia che durante un’aratura per mettere una carciofaia in un terreno vicino alla chiesetta di Santa Maria, vennero alla luce i resti di un insediamento umano che probabilmente risaliva all’epoca romana. Era uno dei tanti villaggi sparsi nel territorio che venne abbandonato e in seguito contribuì a concentrare la popolazione in un unico paese, dove sorge attualmente Serramanna.
Già nel passato si sapeva che la chiesetta era costruita sui resti di un nuraghe e probabilmente vicino a un pozzo sacro (luogo di culto delle acque). Una zona strategica di origine alluvionale che si trova a nord ovest del paese nella confluenza tra il fiume Mannu e il rio Leni, con terreni fertilissimi ricchi di orti e agrumeti. Nei pressi fu individuato anche un cimitero punico e quindi un territorio abitato fin dall’antichità. Dove stava la chiesetta esisteva precedentemente anche un tempio di origine romanica riconoscibile dalle colonne ritrovate sul posto che alcuni affermano siano state utilizzate anche per la costruzione della vecchia cappella dedicata alla stessa Santa, nella chiesa parrocchiale del paese, come spesso accade quando a una civiltà o a una religione subentra un’altra. Alcuni di questi pezzi di colonnato, di cui conservo anch’io memoria, sono rimasti invece sepolti in quei pressi per sopraelevare il terreno soggetto a inondazioni di due corsi d’acqua, di cui un tratto detto frumini beciu (fiume vecchio), fu deviato in tempi recenti, lasciando solo un acquitrino. Alcuni di questi blocchi squadrati, di materiale arenario non del posto, sono stati utilizzati in parte anche per la costruzione della chiesa di Santa Maria, oggi diventata santuario, dove ogni anno a settembre si svolge la festa campestre più amata dai serramannesi. Delle rovine del villaggio che sorgeva in quel punto si era persa traccia perché a causa di epidemie malariche e inondazioni, fu abbandonato dalla popolazione che si trasferì in zone più sane e salubri lontano dai corsi d’acqua, dando origine come detto al paese attuale.
La notizia si sparse in fretta tra noi ragazzi della scuola e tanti si precipitarono nel posto sia per curiosità che per passione e desiderio di collezionare e possedere cose antiche che vedevamo come dei tesori. Diversi ritrovamenti erano avvenuti anche nel passato, ma solo in tempi recenti, quando apparvero i primi aratri in ferro trainati da potenti trattori che avevano sostituito i mezzi precedenti trainati da animali, scalfendo il terreno più in profondità, portarono alla luce diverse rovine e reperti del passato. Talvolta sia per ignoranza che per paura, da parte dei contadini, di perdere i terreni per le loro colture, si nascondeva o si seppelliva il tutto per non essere scoperti o segnalati alla Soprintendenza alle Belle Arti, anche se parecchi paesani, più per curiosità che per conoscenza, conservano nei loro cortili e nelle loro case diversi di questi reperti.
Ricordo che alcuni di noi portarono anche attrezzi per scavare, ma la maggior parte lo faceva a mani nude o al massimo cun cancua pallita (con qualche cazzuola) da muratore. Si scoprirono anche vecchie mura o fondamenta in pietra, alte anche 60/70 cm, costruzioni quadrangolari con diversi ambienti distribuiti in un ampio spazio. Alcuni trovarono pezzi di macine a scorrimento per il grano, recipienti in trachite come i lacus, o pietre dure del fiume lisce e piatte con un foro centrale da usare come mazze, altre di forma sferica grandi come un pugno, probabilmente da lanciare con la frombola, un arma a quei tempi molto usata. Ma le cose più preziose erano le anfore, di diverse dimensioni, non sempre integre, che contenevano ceneri e ossa e talvolta qualche piccola moneta. Bisognava dominare l’entusiasmo della scoperta, altrimenti arrivavano i ragazzi più grandi e prepotenti che cercavano di sottrarci quello che trovavamo. Dovevamo stare zitti e mettere in tasca senza attirare l’attenzione e scappare subito se si trovava qualcosa di importante. Ricordo che alcuni trovarono delle brocche o anfore ancora intatte della stessa grandezza, ma più eleganti, di quelle che usavamo nelle nostre case per mantenere l’acqua fresca. Alcune le rompevamo noi stessi per vedere cosa contenevano, ma la maggior parte erano già ridotte in tanti cocci, come vasi, piattini e piccole lucerne, ma anche tegole piatte (embrici) che in seguito si capì che servivano come lastre tombali dove venivano adagiati i resti del morto. Si scavava allora con più attenzione per recuperare qualche lacrimatoio, alle volte anche in vetro o qualche moneta che si usava mettere in bocca o sugli occhi del defunto per pagare il pedaggio per l’aldilà.
La notizia del ritrovamento si sparse anche fra gli adulti, specie se appassionati di antichità, in seguito a tutto questo parapiglia lo stesso proprietario o chi aveva preso in affitto quel terreno ricopriva gli scavi, seppellendo di nuovo tutto e parificando il terreno, prima che arrivasse o venisse segnalato alla Sovrintendenza.
Qualche giorno dopo non rimaneva traccia neppure dei cocci. Non so se quell’anno seminarono qualcosa in quel terreno ma tutto si calmò e per evitare denunce da parte del proprietario nessuno andò più a scavare.
A distanza di anni mi recai in quel campo alla ricerca di qualcosa ma trovai solo piccoli frammenti di terracotta, venuti nuovamente in superficie, a memoria del nostro passato, ma ormai macinati dalle frese e dagli aratri.
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