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L'ISOLA IN CUCINA

Sos andarinos o zirellus de Usini cun ghisadu a sa pastora

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di Roberto Loddi
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Roberto Loddi

In Sardegna esistono ancora donne dedite eroicamente al culto dell’arte culinaria, a custodia e salvaguardia delle tradizioni, anche se con il passare del tempo ne rimangono sempre meno. Sicuramente le nuove generazioni hanno priorità diverse e ciò che per noi erano valori assoluti come le tradizioni e il sacrificio ora sembrano più tiepidi e appannati. Oggi, le donne di casa, ancora attaccate alle usanze, cercano di trasmetterle alle nuove generazioni, con molta passione attraverso sagre paesane, appuntamenti caratteristici e rassegne speciali, occasioni per affermare il valore dell’arte della cucina antica e del mondo enogastronomico isolano, dove la competenza e il sacrificio sono ingredienti imprescindibili.
Un esempio di questa resistenza è Usini, un paese tipico del Logudoro di 4.250 abitanti circa, poco distante da Sassari, conosciuto oltreché per prodotti agroalimentari di qualità superiore, anche per sos andarinos o zirellus, formato di pasta casalinga molto antica della cucina rurale. L’origine resta incerta, ma la lavorazione manuale conferma una tradizione agreste che ha la propria genesi in un passato glorioso della Sardegna.
Sos andarinos, zirellus, girellus, per via del movimento delle mani nell’esecuzione che ricorda il girello dei bambini che cominciano a gattonare, sono un formato di pasta molto antico a base di semola di grano duro sardo, trigu saldu, e si preparano esclusivamente a mano.
Fin dai tempi delle dominazioni genovesi e pisane, la Sardegna con i suoi pastifici era ritenuta un fiore all’occhiello nel settore e al passo con i tempi, tant’è vero che a Napoli la pasta veniva chiamata “pasta di Cagliari”, eccellenza che mantenne ininterrottamente fino all’occupazione degli iberici. La pasta veniva esportata nelle città portuali di Pisa, Genova e nella Catalogna, ne è conferma la presenza anche a Trisobbio, Tërseubi in piemontese, paesino dell’ovadese in provincia di Alessandria, situato nell’Alto Monferrato e anche capoluogo dell’unione dei Castelli tra l’Orba e la Bormida, ai confini con la Liguria, dove tuttora si cucinano  gli “andarini”, formato di pasta simile alle trofie della vicina Liguria, che si cucinano in brodo di gallina o di cappone durante il periodo dei festeggiamenti natalizi e pasquali.
Da testimonianze scritte risultano notizie di andarinos già nel XVII secolo e la prima documentazione la fornisce il canonico Martin Carrillo, detto il “Visitatore”, deputato del Regno e Rettore dell’Università di Saragozza, noto per la sua onestà integerrima, incaricato dal re Filippo III di Spagna allo scopo di relazionare sull’andamento amministrativo del Regno nell’Isola. Nei giorni in cui svolgeva le sue indagini fu invitato a un banchetto ufficiale offerto dal dottor Antiogo Marcello rettore di Mamoiada, che registra nella lista delle vivande, fra i vari servizi, sos andarinos, los andarins, in catalano.
Nei primi anni del XVIII secolo, fu il padre domenicano Jean-Baptiste Labat o semplicemente Père Labat (religioso, botanico ed esploratore francese, ingegnere, militare, etnografo e scrittore), a segnalare sos andarinos, come un formato di pasta casalinga confezionata manualmente dalle massaie dell’Isola. Oggi come allora la ricetta è sempre la stessa. Abili mani, con movimenti sapienti assottigliano dei tocchetti di pasta, dando loro una forma elicoidale che, come già detto, somigliano e ricordano le trofie liguri.
Le donne del luogo, vestite per le grandi occasioni con la gonna d’orbace (genere di tessuto già in uso per confezionare il vestiario dei soldati romani) e l’immancabile grembiule bianco, pannéllu, pannéddhu, preparano in segno di amorevolezza come una volta, sos andarinos: un impasto di semola di grano duro sardo, acqua tiepida e sale, stando sedute attorno a  sa mesa  primordiale tavolo in legno, quello che utilizzavano un tempo per impastare il pane, usando una tavoletta o un vetrino rigati.
In passato si ricorreva all’aiuto de su chiliriu, xibiru, crivello fatto di giunchi o di asfodelo a forma rotonda. sos andarinos, andarinus, zirellus, una volta preparati, si facevano e tuttora si fanno asciugare all’aria aperta o al sole, allargati nelle canistreddhas, ampi canestri, utilizzati pure dai panettieri per accomodarci il pane.
Anticamente era la pasta della domenica e delle feste e sos andarinos venivano conditi con su ghisau – ghisadu, il classico sugo della tradizione sarda, preparato con carne di maiale o pecora, ma anche con carne di agnello, di manzo o con gli animali dell’aia, con l’aggiunta di cipolle o cipollotti, odori dell’orto, pomodori freschi o secchi ed erbe aromatiche, zafferano, il tutto condito con una bella spolverata di pecorino stagionato e pepe macinato al momento.  Ogni anno, come consuetudine, alla prima settimana di luglio, Usini dedica a sos andarinos, un appuntamento gastronomico orgogliosamente all’insegna della tradizione contadina.

Ingredientis:

per la pasta: g 400 di semola di grano duro sardo, acqua e sale q.b. per l’intingolo: g 400 di, purpuzza, carne di maiale tagliuzzata o macinata grossolanamente, usata per preparare la salsiccia sarda, g 400 di polpa di pomodori ridotta a poltiglia, 4 germogli di cipolla, pillonazzu, 2 spicchi d’aglio, un ciuffo di armiddha, timo sardo, un ciuffo di rosmarino, tzippiri, zippiri, zipiri, spiccu, ispiccu, sispiccu, rosi marini, romasinu, rumasinu, 2 foglie tenere di alloro, bacche di ginepro, zafferano San Gavino, g 80 di pecorino sardo stagionato, g 40 di guanciale, grandua, vino bianco secco tipo  vermentino, aceto di vino  bianco, brodo, olio extravergine d’oliva, sale e pepe di mulinello  q.b.

Approntadura:

qualche giorno prima dell’esecuzione della ricetta, disponi la semola a fontana sul ripiano della madia, al centro tuffaci una presa di sale e tanta acqua quanta ne occorre per ottenere un impasto di giusta consistenza, liscio e malleabile, che lascerai riposare avvolto in frigorifero per un’ora. Trascorso questo tempo, preleva dei tocchetti di pasta e rendila sottile come un maccherone (spaghetto grosso), ricava dei cilindretti regolari di sei – otto centimetri circa e con la pressione del pollice di una mano allungali, poi premili su una tavoletta o una superficie di vetro rigati, facendoli roteare in senso elicoidale, in modo da creare dei fusilli a forma svasata, che lascerai asciugare su un vassoio insemolato al sole per un giorno o due. Nel mentre che la pasta si asciuga, il giorno prima dell’utilizzo, metti a marinare la carne (nella tradizione di Usini nel condimento è prevista oltre alla carne di maiale, una parte di quella di pecora e l’intingolo prende il nome di ghisadu in un recipiente d’acciaio insieme a una parte di aceto e due di vino, alcuni grani di pepe e bacche di ginepro pestati, una presa di sale grosso, i germogli di cipolla, le foglie di alloro, il rosmarino, il timo e l’aglio. Il giorno dopo, estrai la carne dalla marinata e tienila da parte, poi preleva gli odori e tritali molto finemente, accomoda il battuto ottenuto dentro a un capace recipiente di terracotta, tiànu mannu, sartàina, insieme a un generoso giro d’olio, il guanciale battuto a coltello, subito dopo fallo rosolare in questo grasso e irroralo con una spruzzata di vino. Quando evaporato, aggiungi la purpuzza, qualche minuto dopo la polpa di pomodori e prosegui la cottura dolcemente bagnando l’intingolo con del brodo vegetale bollente, qualora tendesse ad asciugarsi e qualche minuto prima del termine, regola il sapore di sale, impreziosiscilo con una macinata di pepe e una presa di zafferano. Terminata questa operazione, lessa la pasta preparata nei giorni precedenti in abbondante acqua salata a bollore, appena al dente, scolala direttamente dentro al recipiente del condimento. Padella velocemente il tutto a fiamma vivace, giusto il tempo che occorre per fare insaporire gli ingredienti. Servi, sos andarinos, immediatamente, incasaus, cosparsi con il formaggio e una macinata di pepe. Vino consigliato: Alghero cagnulari rosso, dal sapore asciutto, armonico e leggermente tannico.

 

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