In Sardegna, nella pianura del Campidano l’orzo (farre, farri) lo coltivavano e lo coltivano anche nei paesi a ridosso dei rilievi montani dell’Isola da secoli.
Dalla farina d’orzo si preparava su pane orzatu, il pane d’orzo, ed era quello che consumavano maggiormente i giualzos, famiglie della servitù.
Già conosciuto da oltre dodicimila anni, l’orzo è sempre stato utilizzato nell’alimentazione dell’uomo.
Originario dell’Asia occidentale e dell’Africa nord orientale, la sua coltura si è diffusa in tutto il mondo. Anticamente gli egiziani con la farina d’orzo preparavano pane azzimo e focacce, i greci lo utilizzavano in cucina quotidianamente, i gladiatori romani venivano rifocillati giornalmente con una zuppa d’orzo, mentre i cristiani producevano pane azzimo.
Nel trattato di pace tra Pisa e Genova del 1188 compare già Farri come cognome di persone che attraverso varie documentazioni trovate, pare risultasse di origini liguri.
Tuttavia l’abitudine di associare al nome un soprannome ebbe inizio intorno al termine dell’impero romano. Difatti nel Medioevo le persone iniziarono ad avere un cognome di seguito al nome, il quale poteva essere un particolare legato ripreso al tipo di mestiere, all’attività svolta, al luogo di nascita, ma anche caratteristiche fisiche dei genitori o consanguinei al fine di distinguere le persone.
Mentre nel codice diplomatico sardo del 1388, l’anno in cui Eleonora d’Arborea firmò dopo lunghe trattative l’accordo di pace, per altro forzato (a causa del sequestro del coniuge Brancaleone Doria, liberato solo il primo gennaio del 1390) con Giovanni I di Aragona, i Majore (carica simile a quella di un sindaco attuale) dei villaggi biddhas, biddhasa, iddhas, siglarono anch’essi l’accordo di pace fra le parti e, tra i presenti nella documentazione risultavano dei farri, farris, farre, podda o poddine da farina, scetti: altri non erano che nomignoli, soprannomi, allomingiusu, che tradotti significano semolino o semola d’orzo, similia, simula, pollen da polvere, furfur da crusca, fuscere e nulla ha a che fare con il frumento farro, quindi il nome venne mutato in Farris.
Forse questo accadde quando fu in un certo senso reso obbligatorio l’uso di aggiungere il cognome o soprannome al nome, ad ogni modo la formalizzazione dei cognomi fu introdotta intorno al 1550 circa durante il concilio di Trento (1545-63) nel quale si decise che i curati annottassero sui registri anagrafici oltre ai nomi anche i cognomi di tutti i bambini battezzati.
Farri, comunque sia, in passato era anche un piatto quotidiano di tradizione contadina, preparato con ingredienti poveri e disponibili in casa.
Oggi in alcune zone dell’Isola, il farri o farre, si prepara ancora come un tempo e risulta essere una succulenta minestra che dà ristoro anche a coloro ai quali l’appetito non manca.
Ingredientis:
gr 250 di semolino d’orzo, gr 250 di pecorino fresco, un ciuffo di mentuccia selvatica, menta de arriu, brodo di carne di pecora, olio extravergine d’oliva, aglio, pane, civraxiu di Sanluri raffermo, sale e pepe di mulinello quanto basta.
Approntadura:
poni sul fuoco una marmitta con paio di litri di brodo che avrai preparato il giorno prima, in questo modo, il giorno dopo avrai la possibilità di sgrassarlo senza difficoltà. Quando inizia a bollire, tuffaci a piccoli pugni e lentamente il semolino d’orzo, mescolando la minestra con una frusta per evitare che si formino dei grumi, quindi lasciala cuocere a recipiente coperto per quaranta minuti, mescolando di tanto in tanto. Nel mentre riduci il pecorino a lamelle sottili e quando la pietanza è cotta, unisci il formaggio, alcune foglie di menta selvatica spezzettate finemente, una presa di sale, una generosa macinata di pepe e un giro di olio. Servi la minestra di semola ben calda con fette di pane abbrustolite e leggermente strofinate con dell’aglio. Vino consigliato: Sardegna Semidano Mogoro, dal sapore morbido, sapido, fresco e asciutto.
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