L’uomo da sempre ha cercato luoghi e terreni idonei, per coltivare le granaglie e per garantire la propria sopravvivenza. Dal ritrovamento di materiale fossile specifico, si è capito che alcuni popoli dell’Europa preneolitica hanno dato origine a piantagioni di frumento, provando così che l’attività agricola di coltura dei cereali nell’area dell’Europa occidentale, si estese nel primo periodo in cui si sviluppò la tecnologia umana e quella dell’età della pietra. Documentazioni datate di oltre diecimila anni, scoperte nei territori adiacenti ai laghi elvetici dimostrano come quell’epoca il genere umano fosse già padrone di tecniche innovative sulla lavorazione del pane.
Utensili primitivi utilizzati per tagliare il grano sono venuti alla luce in alcuni scavi effettuati in Palestina e il cui impiego è stimato intorno all’ottomila e tremila a. C.. Sempre in tale periodo, in parecchie grotte del Belgio, archeologi hanno scoperto frammenti di chicchi di grano, gli stessi che venivano polverizzati ponendoli in mezzo a due ampie pietre, una delle quali utilizzata come pestello. Il semolato ottenuto, veniva impastato con dell’acqua sorgiva, producendo così una poltiglia con la quale si cibavano. Nel codice di Hammurabi (sovrano babilonese, sesto re della I dinastia di Babilonia 1750 a.C. circa), c’è una annotazione in cui si parla di pane e di birra.
Pare siano stati il popolo siriano e quello palestinese a coltivare per primi il grano e, in un secondo periodo anche gli egizi, che già coltivavano l’orzo, passarono a coltivare il grano, ma appena conosciuta la differenza dei due cereali preferirono la coltivazione di quest’ultimo, anche perché con la farina di grano si poteva ottenere un pane decisamente migliore però destinato al consumo delle famiglie più agiate, mentre per il popolo si continuava a panificare con l’orzo e lo spelta (cereale antichissimo, le cui origini vanno ricercate nell’Asia Meridionale e nell’Africa di ottomila anni fa).
La conferma che gli antichi egizi coltivavano il grano è dimostrato dal ritrovamento di alcune tombe faraoniche con affreschi che illustrano la filiera del grano: coltivazione, mietitura, frantumazione, miscelatura e cottura.
Pare siano stati gli egizi a scoprire la lievitazione, mentre altre fonti sostengono siano stati gli ebrei a scoprirla durante l’esodo, in quanto dovendo scappare velocemente, si portarono dietro oltre alle poche cose possedute, anche l’impasto del pane appena preparato. Quando si fermarono per una sosta e far cuocere il pane sulle pietre arroventate dal sole, si accorsero che la massa era raddoppiata e in cottura le pagnotte si erano gonfiate, risultando così più soffici e più digeribili.
Nonostante la scoperta della lievitazione sia da attribuire agli ebrei, nel corso della loro detenzione, si cibavano di pane nero (pane azzimo), ossia pane infornato senza lievito nell’impasto, lo stesso che consumavano durante le feste pasquali.
Conosciuto e apprezzato dai romani e dai greci, il pane ha rappresentato per l’umanità, elemento fondamentale e primario per la sopravvivenza e non a caso a Roma nel 150 a. C., fu aperta la prima rivendita di pane. I fornai si chiamavano “pistores”, ancora oggi nel veneziano e nel padovano i fornai e i panettieri si chiamano “pistòr” che significa “chi pesta i cereali nel mortaio”. A Roma Capitale, fra i tanti monumenti si trova un’opera architettonica unica nel suo genere: la tomba di Eurisace, ricco fornaio di Roma, sepolto in quell’eccentrico tempio con sua moglie Atinia verso la fine del primo secolo a. C.. Questa tomba attualmente è ben conservata, alta, imponente e si trova accanto agli archi degli acquedotti di Claudio, trasformati poi in un tratto delle Mura Aureliane. Certamente il pane di allora non è quello di oggi, sicuramente era molto simile a quello azzimo – mazzero, tipo di pane mal lievitato, sodo, cotto due volte, biscottato, anche perché così facendo si otteneva un pane secco e conservabile per lunghi periodi.
Questa preparazione in uso in medio Oriente, veniva eseguita solo manualmente, in quanto non esistevano movimenti meccanici per impastare quantità ingenti di cereali. Il pane all’epoca era di forma arrotondata e schiacciata, affine a quella che attualmente si prepara in Sardegna: spianada, pistoccu, fresa, carasau, pillu, di fattezza arrotondata, a mezza luna, a quarto di cerchio e rettangolare. In effetti questa tipologia di panificazione è una delle più antiche del mondo, probabilmente risale all’età del bronzo (II millennio a.C.), oggi conosciuto come il pane dei pastori, in quanto questi stavano fuori casa per lunghi periodi a pascolare il bestiame e quindi doveva mantenersi commestibile per parecchi mesi. Tanto è vero che nel territorio dell’Ogliastra e della Barbagia, il pane secco ha simboleggiato da sempre il mantenimento degli abitanti, gli unici ingredienti utilizzati: l’immancabile grano sardo, trigu saldu, e a seconda del ceto sociale, l’aggiunta di cruschello, farina integrale, farina d’orzo, di segale e ancora in epoca di magra, con farina di ghiande e di castagne poi cotto in forno a legna, utilizzando radici, ciocche, cotzinas, e fascine di cisto, di corbezzolo e lentisco.
Un pane somigliante, lo cita Omero nell’Iliade: “… e tolte alfine dagli alari le carni abbrustolate sul desco le posò; prese di pani un nitido canestro e, su la mensa distribuilli”. Gli antichi romani, iniziarono a parlare di panificazione solo dopo le trionfali battaglie in Oriente, in quanto tra i prigionieri c’erano dei panettieri, che insegnarono innovative tecniche di panificazione, in un primo momento nei forni dei patrizi, poi in quelli pubblici e infine, dopo la caduta dell’Impero Romano in quelli casalinghi.
Visto il significativo apprezzamento per il pane nel Medioevo i signori obbligavano i cittadini ad utilizzare le proprie strutture per macinare i cereali e i loro forni per la cottura del pane e, fu così che a causa di queste angherie, il pane divenne solo alimento per pochi. Solo con il Rinascimento la panificazione vide sorgere nuove tecniche e nuovi macchinari, ma anche in quell’epoca, nei periodi di carestia, non mancarono i commercianti disonesti che diventavano sfruttatori dei più deboli, come racconta Alessandro Manzoni nei Promessi sposi ricordando l’insurrezione del pane. Col passare dei secoli, i vari governanti iniziarono a imporre tasse e imposte sul grano e sulla panificazione, di conseguenza i ricchi potevano permettersi il pane bianco più raffinato, mentre per i più deboli non restava che nutrirsi con il pane nero, peraltro oggi descritto dagli esperti nutrizionisti come il pane più sano rispetto a quello raffinato.
Man mano siamo arrivati ai giorni nostri, dove ogni paese ha le sue ricette tradizionali, ognuna differente da quelle degli altri, ma tutte con un comune denominatore: il grano, la farina, l’acqua. Tutti ingredienti di prima qualità, da fare invidia a chiunque e non perché siamo esageratamente legati alla nostra terra, ma perché abbiamo una terra meravigliosa e unica, dove su pani esti su rei de sa tàulla, mesa, il pane è il re della tavola.
gr 400 di semola di grano duro Senatore Cappelli, gr 400 di farina di semola rimacinata sarda, gr 200 di farina di grano integrale, 1 patata, gr 20 di sale fino marino, gr 300 di lievito madre sardo, su framentu, imbonadori, gr 550 d’acqua di sorgente o minerale naturale, farina per lo spolvero e sale quanto basta.
Approntadura:
per prima cosa, lessa la patata con la buccia, quando risulta tenera, pelala, passala allo schiacciapatate e metti il ricavato dentro ad una scodella. Fatto, setaccia le tre farine insieme al sale sul ripiano della madia, poi forma una fontana e al centro tuffaci il lievito precedentemente fatto stemperare con poca acqua tiepida prelevata da quella che hai in dotazione, la patata passata, il sale, il resto dell’acqua sempre fatta intiepidire e impasta il tutto energicamente per mezz’ora, fino a ottenere un composto liscio e malleabile. Terminata questa operazione, suddividi l’impasto in tanti panetti che somiglino a un fico d’india (circa cento grammi cadauno) e man mano che li prepari accomodali dentro a un recipiente, impastera, corbula, crobi, canestro, canisteddu, rivestita con una tovaglia di lino infarinata e coperta con una coltre di orbace (in sardo orbaci dall’arabo al-bazz, stoffa, tela), quindi lasciali rilassare per un quarto d’ora circa. Trascorso il tempo occorso, appiattiscili sul piano di lavoro infarinato con l’aiuto di un matterello, tùtturu, e conferiscili una forma rotonda, di 30 centimetri di diametro e spessa circa mezzo centimetro ognuna, oppure dalle forma che preferisci tu (a mezza luna ovale, rettangolare, quadrata). Finito, inizia a frizionare la pasta con i polpastrelli faghere in poddighe, così facendo le sfoglie rimarranno ondulate e ruvide e via, via che le prepari, sistemale su una spianatoia infarinata, coprile con una tovaglia e lasciale lievitare tre ore in ambiente tiepido privo di correnti d’aria. Allorquando il periodo di lievitazione sarà finito, cuoci i dischi di pane (nel numero che ci stanno dentro al forno di casa, qualora non possiedi quello a legna) in forno già caldo a 250°. Appena le sfoglie si gonfieranno come un pallone, estraile dal forno, con l’aiuto di un coltello ben affilato dividile in due e man mano che lo fai, disponile una sopra l’altra con la parte interna all’insù, lasciandole raffreddare. Solo allora, ripassale nel forno ben caldo, giusto il tempo che occorre per farle biscottare e allo stesso tempo dorare in superficie. Vino consigliato: Alghero chardonnay spumante secco ben freddo, dal sapore fruttato, tipico, delicato, sapido asciutto e pieno.
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