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La lettera

Villa-Cidro e Villa-Service

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di Don Efis Cai

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Villacidro. La chiàmano ancor oggi “villa dei cedri”. Lo índicano come “il paese dei cedri”. In tutta la mia vita, io ne ho visto uno solo; e non ricordo neppure com’è fatto, il cedro. Non saprei neppure distínguere, tra i diversi cedri, il cedro bíblico, cioè quello citato tante volte nel VecchioTestamento, appartenente al gènere dei “Pini”, che vive sècoli e sècoli ed è alto trenta, quaranta metri, dal cosiddetto citrus medica, cedro di tre o quattro metri, che è un arbusto di non so quale famiglia, che, invece, venne introdotto nel III sècolo d. C., quando Roma aveva già scavato le sue fondamenta cidresi e aveva già dato il nome al villaggio che aveva da un pezzo, ossía da centinaia d’anni, i suoi nuraghi anche in pianura. Ho letto che qualche inventore di etimologíe fa nàscere il nome del paese dal cosiddetto “citrus limonum” o semplicemente “citrus”, che è la pianta del limone ed è giunta in Sardegna nel IV sècolo d. C. con l’agrònomo romano Rutilio Tauro. Potrebbe suggerirci qualcosa, a questo propòsito, l’assessore all’Urbanística, che è dottore in Agraria, e l’Assessore alla Cultura. Personalmente mi han convinto alcune letture che “Villacidro” ha tutt’altro significato e, oltre alle carte topogràfiche dell’ísola in cui vivo fin dalla mia nàscita, molte considerazioni mi indúcono a crèdere che il suo antico nome provenga dall’avverbio latino citra, “di qua, da questa parte”, dàtole dai suoi abitanti romani, con riferimento al torrente – fiume Leni o all’antico villaggio che aveva lo stesso nome, e già in alcuni documenti del XIV sècolo compariva come Cidru e Cidro e come Villacidro de Leeni; ma m’indúcono anche a pensare all’avverbio greco tyrda in vàri modi inciso, scritto, stampato fin dal XVII sècolo che ha un significato contrario, “di là” dal fiume, di là dalla cittadina di Leni, perché, appunto, i forestieri, gli stranieri la vedévano dall’esterno, dall’altra parte.

Villacidro, via Cagliari

Stranieri o abitanti o nativi, Villacidro era sempre amata da tutti e da tutti rispettata; e tutti si davan da fare per il suo bene e per il loro benèssere. “Il paese di qua” oggi è rispettato da pochi e, a parole, da tutti amato. Il Villacidrese che ci presentò il noto Dessí era chiuso in sé stesso, muto come la pietra, uomo della preistoria. Ma sempre attivo. Oggi è un chiacchierone che si lamenta a tu per tu e, quando è necessario dar di petto, allorché le autorità del paese rèstano inerti di fronte alle porcheríe villaggiesche, diventa sordo e muto come la plàstica. Giuseppe Dessí era nemico número uno dei vigliacchi, dei falsi e d’ogni volgarità che riguardasse il nostro paese che indicava come “paese lontano dalla cultura” e i suoi abitanti “gente passionale e scèttica allo stesso tempo, diffidente verso tutto ciò che è nuovo, ma anche intelligente e, un tempo almeno, grandi lavoratori…” Chissà che cosa scriverebbe, oggi, se vedesse la piazzetta “Zampillo” con una torraccia di cemento al centro della vasca, fiori di plàstica negli incavi laterali e, poco distante, aiuole d’erba secca ed escrementi freschi di puzzo, ogni ora del giorno e anche della notte, da cani espellenti al guinzaglio ben accompagnati da signore e signorine, signori e signorini! oppure se passasse nelle stradette intorno, là dove scórrono al centro e ai lati fiumicelli oleosi o d’acque lúride e schiumose che vengon giú dai terrazzi o dai cortili con un tanfo venèfico di fogna formando rigàgnoli che giúngono fino alle vie principali, quale racconto d’acqua inventerebbe, con tale ispirazione? Altro che paese d’ombre… paese di merdai. Una volta, fino a tutti gli anni Cinquanta, Villacidro era il paese piú pulito del Campidano, una cittadina, con un vespasiano che primeggiava e, a confronto con quello di Càgliari, era un píccolo gioiello. Nessun altro paese di civiltà lo possedeva. Ora, persino il giorno, qualcuno si è ormai abituato a “far centro” negli àngoli delle case, con scelte ricorrenti e preferenza all’àngolo tra il detto Monte granàtico e il detto Caffè letterario, sí, in pieno centro. Perciò, anche paese di pisciatoi… all’aperto. Incuria, abbandono, indecenza. Nuovi veleni della vergogna si aggiúngono a quelli della Villa-Cidro o Villa-Service, della Tàranto sarda, della trista Sèveso campidanese senza fàbbriche di sotterrànei veleni, ma con finítimi magazzini e mercati di tutto e, soprattutto, di gèneri alimentari.

E basterebbe un cartellino, un cartello… altrimenti un cartellone per chi ha scarsa vista, con tanto di “divieto” di defecare e urinare o di far defecare o urinare, a donne, uòmini o cani nelle aiuole, nei marciapiedi, negli àngoli delle case, nei cancelli delle abitazioni dei vícoli ciechi, nelle strade, dentro il paese. Basterebbe una “guardia” cittadina attiva. Basterebbe una telecàmera, un occhio artificiale ad ampio raggio, almeno nel centro stòrico. Eppure lo hanno fatto scrívere nei giornali capovígili e síndaci e assessori, da anni, ma anche da poco tempo, che ci sarebbe; e non che ci sarebbe stato. Ma non c’è ancora. L’occhio invisíbile ha le pàlpebre chiuse. Ancora. Quanto tempo ancora? Ancora auto in curva, ferme nelle rotatorie, davanti agli incroci e ai semàfori, sotto i cartelli di divieto proprio con evidente sfida o concordia… annosa. Ancora. Fino a quando? Le motociclette a tutto gas sfrécciano bombardando il paese di rumori assordanti il giorno e la notte. Oltre ai vؙígili della nostra urbetta ci sono anche i Carabinieri che, quando vògliono, agíscono anche di giorno. Síano i benvenuti!

Forse con l’attenzione delle autorità locali scomparirèbbero i pipistrelli la notte e le ànatre il giorno; e tutti gli uccellacci e tutti gli uccellini perderèbbero le ali in volo e le zampette infide che li condúcono fino al chiuso del “… d’Ichnusa / primo lavacro ondísono…” (come scrisse il poeta villacidrese di lingua italiana Gigino Cadoni, prima d’esser il poeta di lingua sarda Bernardu de Linas o Bernardu Mabíu), e in tutti gli altri monumenti ignorati nella loro solitúdine da chi dovrebbe cómpiere il dovere di custodirli, perciò, in un certo senso, per giusta coscienza corresponsàbili, e salvaguardarli dai vàndali ladri, distruttori della cultura e della civiltà. L’autorità política è legíttimo potere e, dunque, il pòpolo dà il crèdito alla persona scelta e l’autorità del presecelto deve esser concretamente applicata ed è perciò la testimonianza di un dovere compiuto saggiamente davanti al pòpolo, per il bene del paese. Un tempo, insegnava Roma, “Uti. Non abuti”, usare, non abusare. Si usi l’autorità, ma non si abusi con la trascuratezza o, peggio ancora, con il malíssimo fatto. Abbiamo ancora speranza che non sia cosí, per sempre.

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