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ATTUALITÀ

Ingiustizia fiscale

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Per i partiti che, a destra e sinistra del Parlamento, sono all’opposizione del governo Lega-Cinquestelle l’unico problema della manovra finanziaria proposta dall’esecutivo sembra essere la decisione di portare il rapporto deficit/pil al 2,4%. I richiami dell’Unione Europea, fatti propri anche da Partito Democratico e Forza Italia, più che rassicurare i cittadini alimentano una campagna mediatica che spiana la strada alla speculazione finanziaria. In realtà, nonostante gli allarmismi, l’Italia, sulla base degli attuali indicatori economici, non è affatto a rischio di insolvenza. L’elevato debito pubblico infatti è bilanciato dal basso valore del debito delle famiglie e delle imprese. Se si considera anche il nostro surplus commerciale – il secondo più elevato in Europa dopo la Germania – l’allarme lanciato non è sostenibile sul piano economico. Il dato politico è semmai che questo governo, come i precedenti, promuove una politica fiscale che aumenta le aliquote sui redditi più bassi, riducendo la progressività a vantaggio dei più ricchi.

La principale causa dell’aumento del debito pubblico italiano dipende dalla spesa per interessi sul debito stesso, la cui dinamica negli ultimi anni è stata condizionata dalla speculazione finanziaria. In occasione della crisi del 2011-2012, l’esborso dello Stato per coprire gli interessi sul debito ha toccato i 160 miliardi. Per gli episodi speculativi del 1992-93, 2007-2008 e 2011-2012, lo Stato ha pagato 467,3 miliardi di interessi, ovvero il 20,6% del debito pubblico del 2017. In questo quadro, la posizione dell’UE che si accanisce sulla “tenuta dei conti italiani” per contestare la politica economica del governo ha il sapore della “pregiudiziale ideologica” lanciata per impedire che un paese membro possa adottare una politica espansiva in grado, potenzialmente, di evitare lo smantellamento del welfare e la privatizzazione della sanità, dell’istruzione e dei servizi sociali.

Sul versante delle politiche fiscali invece, le riforme degli ultimi anni hanno abbassato le aliquote uniche e gradualmente cancellato la gradualità di quelle Irpef. Il mancato introito dovuto alla riduzione della progressività fiscale ammonta, per il solo 2016, a 8,3 miliardi di euro, pari al 4,5% del gettito Irpef. I redditi da lavoro sono strettamente soggetti alla progressività delle aliquote. I redditi da impresa solo in parte: le società di capitali pagano un’Ires pari all’aliquota unica del 24%. Lo stesso vale per gli affitti (21%), gli interessi sui depositi bancari (26%) e i titoli di stato (12,5%). Pertanto, chi gode di entrate derivanti da rendite – affitto, interessi e altro – sfugge alle maglie della progressività fiscale grazie ai redditi cumulati e ottiene un trattamento più favorevole.

Gli attacchi speculativi e l’attenuazione della progressività fiscale sono costati allo Stato oltre 762 miliardi di euro, il 34% del nostro debito totale. La “manovra del popolo” del governo Conte – con la proposta di flat tax – alimenterà ulteriormente questa spirale interesse-debito-interesse. Maggiore equità fiscale e riduzione del debito pubblico sono tuttavia due obiettivi raggiungibili solo grazie all’introduzione di una tassazione complessiva e unica per tutti i cespiti di reddito e il ritorno alla progressività delle imposte. Oltre a tagli e austerità, le soluzioni alla tanto temuta ”tenuta dei conti” si possono trovare senza rinunciare ai principi della giustizia sociale e dell’equità fiscale sanciti dalla Costituzione. (w.t.)

RIPRODUZIONE RISERVATA
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