Sono nato in Sardegna e mi sento orgoglioso di questa origine. Amo la mia terra, un isola meravigliosa, un angolo di pace, un paradiso incantato. Acque azzurre, boschi fioriti dove gli uccelli volano intorno a fantastici fiori. In questa terra a molti sconosciuta, vorrei tornare per non andarmene più via. Ed è proprio in questa terra che nascono i piatti schietti, preparati sapientemente e umilmente, con ingredienti poveri del territorio, ma ricchi di cultura e di storia. Piatti semplici, che sin dal tempo dei romani ai giorni nostri, con la loro gloriosa storia resistono agli attacchi della cucina dell’era moderna.
Ogni volta che torno nella mia Sardegna, dove viveva la mia mamma, depositaria di saperi e sapori a cui ho fatto costantemente riferimento, la mia preoccupazione è quella di conoscere persone di una certa età per farmi raccontare storie fascinose legate al cibo, chiedendo loro ricette, aneddoti e origini. Come persona umile che mi ritengo, cerco sempre di apprendere ed accrescere il mio bagaglio culturale enogastronomico con grande curiosità. Bagaglio di conoscenze appreso anche grazie alle collaborazioni con Slow Food, Federazione Italiana Cuochi, Organizzazione Nazionale Assaggiatori di Vino ed altre associazioni specializzate. Tant’è che in un articolo pubblicato tempo fa sono stato definito l’alchimista di cucina antica, lo speziatore, il narratore e l’artista (s’alchimìsta de coxìna antigorìa, su spetziadori, su naradori e s’artìsta), il “maestro”, l’artista che racconta le sue ricette. Per Maxim Gorky, scrittore e politico russo: “è un artista colui che elaborando le proprie impressioni soggettive, sa scoprirvi un significato oggettivo generale ed esprimerle in una forma convincente”. Magari vi state domandando cosa centra tutto questo, beh, io mi sento nella pelle di quell’artista e vi assicuro che è una bella sensazione, quella di poter avere la possibilità di raccontare gli avvenimenti, gli aneddoti, le leggende che mantengono in vita una ricetta per millenni ed avere la possibilità così di condividere con i lettori le mie impressioni.
Già dal tempo dei romani la Sardegna era ritenuta il granaio d’Italia, sia per l’abbondante raccolto mietuto che per l’ottima qualità del grano ed era componente fondamentale e indispensabile per il sistema produttivo dell’impero, tanto da risolvere i problemi nei momenti di carestia.
Dato che la curiosità fa lo scienziato, tempo fa, curiosando tra vecchie riviste, libri antichi di cucina e pagine su internet, ha destato la mia curiosità il nome di una ricetta di Pozzomaggiore: sa cogonelda o cogon’e’elda de Putumajore, paesino in provincia di Sassari nella regione del Logudoro. Dalle informazioni raccolte devo dire che mi ha entusiasmato, tanto da provare a cucinarla e scriverne le caratteristiche. – sa cogonedda – la focaccetta schiacciata, farcita con ciccioli (elda), uva passa (pabassa), zucchero è un dolce dal sapore arcaico che regala la felicità ai palati dei sempre più attenti consumatori.
Nella cultura contadina, una volta, quando si macellava il maiale, con il lardo dell’animale si cucinavano i ciccioli – siccioli gerdas – geldas -, dai quali si ricavava pure lo strutto che veniva utilizzato al posto dell’olio, in quanto quest’ultimo non tutti potevano permetterselo, a causa del suo elevato prezzo. Con questi ingredienti si preparavano le focaccette di Pozzomaggiore, ma in diversi paesi dell’Isola era usanza ed ancora lo è, di lavorare l’impasto del pane sul ripiano della madia lasciandolo piuttosto soffice. Una volta lievitato, si formano delle pagnotte, si farciscono con i ciccioli e anche con della frutta secca sminuzzata, poi si accomodano su delle teglie foderate con foglie di cavolo precedentemente sbollentate, quindi si fanno rilievitare e infine si cuociono in forno. Così facendo, il pane acquisisce un sapore e un aroma esclusivo conferitogli dalle foglie dell’ortaggio.
Paese che vai usanza che trovi, infatti esperte ma umili cuciniere, con queste derrate, sfornano fragranti focacce che nel Goceano chiamano – coccone e nel – Montiferru, covazzedda de gelda -. Nel pattadese le focacce con i ciccioli le chiamano – cozzilas d’elda -, mentre quelle che preparano per la tradizione delle feste di Ognissanti si chiamano – sas cochitas – e sono analoghe a quelle che chiamano – su misturu -, che con l’aggiunta di patate rimangono più soffici. Invece nella maggior parte del Medio Campidano le focaccette si chiamano – costeddas cun gerda o gerdas -. In altre zone si conoscono come – pane di jelda – cocchi ‘e jelda druccis – sas covazzedas de elda – cavazza – uciatini – e chissà con quanti altri nomi ancora.
g 600 di semola di grano duro sardo rimacinata, g 200 di farina bianca, g 12 di lievito di birra freschissimo, g 250 di ciccioli morbidi elda – ielda – jelda – belda – berda – gerda – gerdas, 1 cucchiaiata di strutto istruttu – struttu – ollu de proccu – ozu de pocu – ozu porchinu, g 150 di zucchero comune, g 200 di uva passa pabassa, la scorza grattugiata di un limone giallo non trattato, mezzo cucchiaino di polvere di scorza d’arance essiccate, vino bianco dolce tipo moscatello – muscadeddu -, liquore a piacere, zucchero, farina, sale e acqua tiepida q.b.
Approntadura:
per ottenere un ottimo risultato ed avvicinarsi alla ricetta antica, occorrerebbe utilizzare il lievito madre, ma in sostituzione è possibile usare quello di birra. Perciò, stempera il lievito dentro a un recipiente di ferro-smalto insieme a un bicchiere di acqua tiepida, un cucchiaio di zucchero e due cucchiaiate di farina bianca, utilizzando quella che hai in dotazione. Fatto, amalgama a modo tutti gli ingredienti, copri il ricavato con una pellicola per alimenti e infila il pentolino a lievitare dentro al forno spento, ma con la sola luce accesa, fin quando crescerà e in superficie si sarà formato uno strato schiumoso. Solo allora, disponi le due farine miscelate sul ripiano della madia e al centro tuffaci una presa di sale, mezzo bicchiere di vino, lo strutto, lo zucchero in dotazione, la scorza del limone, la polvere d’arancia, il lievitante e tanta acqua tiepida che si riveli sufficiente per ottenere un impasto privo di grumi, omogeneo e malleabile. Terminata questa operazione, raccoglilo a palla e sistemalo dentro a una conca di terracotta – xivedda – scivedda – infarinata, quindi incidi la superficie e collocala dentro al forno spento sempre con la sola luce accesa a lievitare per tutta la notte. L’indomani mattino, metti ad ammollare l’uva secca dentro a una ciotola, poi coprila a filo con del – filu e ferru – grappa sarda, o un’altro liquore di tuo gusto e tienila da parte.
A questo punto, rovescia la massa lievitata sul piano di lavoro infarinato, sgonfiala rimaneggiandola delicatamente ed allargala, allorché incorpora l’uva passa tenuta da parte ben scolata e leggermente infarinata, i ciccioli ed impasta il composto ancora per dieci minuti senza strapazzarlo. Subito dopo rimettilo dentro alla conca infarinata e introducilo un’altra volta nel forno con la sola luce accesa. Trascorsa un’ora, dividi l’impasto in quattro pezzi ai quali darai la forma di una pagnotta ovalizzata, man mano che le prepari sistemale sopra ad una teglia foderata con un foglio di carta oleata e riponile a lievitare per l’ultima volta accanto a una fonte di calore priva di correnti d’aria, per tre quarti d’ora coperte con un canovaccio. Terminato il tempo richiesto, appiattisci lievemente le focaccette con la pressione delle dita e passale in forno già caldo a 200-220° un quarto d’ora e a 180° per mezz’ora, tanto da farle diventare ben dorate, occorreranno tre quarti d’ora in tutto circa. Essendo questo pane abbastanza grasso, per apprezzarlo in tutta la sua fragranza è meglio consumarlo caldo o tiepido. Vino consigliato rosso: Alghero cagnulari, dal sapore armonico leggermente tannico e asciutto.
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