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Economia & Lavoro

Vittorio Aquila, il decano dei casari della Sardegna

Stabilimento del caseificio Aquila
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Il formaggio, ospite d’onore sulle nostre tavole, da sempre ha rappresentato un prodotto alimentare con valori nutrivi elevati, utilissimi per il nostro organismo come dimostrato anche dalla dieta degli ultracentenario ogliastrini, diventata materia di studio da parte degli studiosi di tutto il mondo. La storia antica ne è ricca di citazioni a partire da 10 mila anni fa in Asia e Mesopotamia, nel libro IX dell’Odissea (l’incontro di Ulisse con Polifemo), alla razione giornaliera di un’oncia (27 grammi circa) da integrare alla zuppa di farro e pane, prevista per i legionari romani, narrata da Virgilio nel 48 a. C. tanto per citarne alcune. Venendo ai giorni nostri, l’Italia è uno dei paesi produttori più importanti al mondo di formaggio vaccino e ovino, apprezzato in tutti i continenti particolarmente per alcune eccellenze, rappresentate dal parmigiano, dal pecorino romano e sardo. Entrando ancora più nello specifico, relativamente alla produzione di latte ovino e numero di  capi, la nostra regione si conferma in testa alla classifica con oltre 332 milioni di litri prodotti da 2,8 milioni di capi (annata 2016/17). In termini di produzione di formaggio, la parte del leone la fa il pecorino romano che ne costituisce oltre l’ottanta percento, di cui il settanta per cento viene esportato negli USA. C’è un filo conduttore che unisce il pecorino romano a Vittorio Aquila e per spiegarlo meglio facciamo un passo indietro e più precisamente al 1884. In quell’anno, il sindaco di Roma, il nobile Leopoldo Torlonia, introdusse il divieto di salagione del pecorino romano, nelle cantine della città causa il forte odore che esso emanava durante la fase della stagionatura. A seguito di ciò, molti produttori e casari romani si videro costretti a delocalizzare la produzione prevalentemente in Sardegna, dove tra l’altro abbondava la materia prima. Questo particolare si incastrerà perfettamente nel prosieguo di quanto ci racconterà Vittorio Aquila, titolare dal 1967 a Furtei del primo caseificio artigiano del centro sud Sardegna.

Questa breve introduzione ci facilità la presentazione del “Capitano coraggioso” di cui oggi andiamo a raccontare la storia. Vittorio Aquila, nasce a Castelsantangelo sul Nera (Mc) il 7 maggio 1936, un borgo abitato in quelli anni da poco meno di mille anime, arrampicato a 800 metri sulla catena dei monti Sibillini, nell’Appennino umbro marchigiano. Il piccolo comune era famoso per le 22 chiese medievali, delle quali resta poco o niente, a seguito del terremoto dell’ottobre 2016 che lo ha raso al suolo come tanti altri paesi vicini provocando purtroppo tante vittime.

Vittorio Aquila

Perché un casaro marchigiano approda in Sardegna?

«Avevo 13 anni, la prima volta che venni in Sardegna al seguito di mio padre Cesare e nonno Paolo, pastori casari. Era per  l’esattezza il 7 gennaio 1949. Mio padre e mio nonno già da diversi anni venivano in Sardegna a fare i casari di pecorino romano, per conto della Società Romana che li riteneva fra i più esperti del settore e per la quale avevano già lavorato nelle campagne romane anni addietro, durante il periodo della transumanza quando, all’inizio dell’inverno, i pastori abruzzesi, marchigiani e umbri, portavano le loro greggi dalle montagne, ai pascoli più ricchi della pianura laziale».

Quando e dove iniziò a praticare questo mestiere?

«La prima esperienza la feci a Villanova Monteleone, un paesino vicino ad Alghero, primo dei tre caseifici esistenti in Sardegna, dove insieme a Orune e Furtei mio padre e mio nonno lavoravano il pecorino romano. Fino ad allora, ogni pastore sardo, produceva le sue caciotte di pecorino nell’ovile e le vendeva direttamente. Con l’arrivo della Società Romana e dei casari “continentali”, nacquero i primi caseifici che consistevano solitamente in una stanza al centro della quale si costruiva “Sa Forredda” (braciere) al cui interno si faceva il fuoco per far bollire il latte in “su caddasciu” (caldaia in rame prodotta dagli artigiani della zona di Isili) e che veniva spostato per mezzo di un argano romano». L’ultra ottantenne Vittorio racconta con un filo di emozione: «i grandi proprietari di greggi intuirono che questa poteva essere una grande svolta per l’economia della Sardegna. Decisero quindi di produrre direttamente il pecorino romano nei loro caseifici».

Successivamente dove proseguì il suo lavoro?

«Venni con mio padre a Furtei, nel caseificio di proprietà del Cavaliere Silvestro Sanna di Serrenti, dove lavorammo per alcuni anni, durante i quali il titolare si associò con Carlo Ledda di Assolo e Francesco Bianco di Guspini. I tre soci, lavorando il latte a giorni alterni, utilizzavano lo stesso casaro, che si alternava nei loro locali di trasformazione. Proprio a Guspini, con Francesco Bianco, cominciò a fare le prime esperienze di giovane casaro nel caseificio situato nella strada, ora via Marconi, che portava alle miniere di Montevecchio». Con un leggero sorriso di soddisfazione il nostro interlocutore divertito racconta di quando «sul camioncino, guidato da signor Francesco, si faceva il giro per ritirare il latte dai pastori del circondario di Guspini, spingendoci fino a Marrubiu. Qualche anno dopo, alla morte del Cav. Sanna subentrò nella conduzione il giovane nipote Italo Lilliu che ha continuato tale attività fino a due anni fa, quando è venuto a mancare all’età di 96 anni».

Come nasce l’idea di farsi un caseificio in proprio?

«È stato sempre il mio sogno nel cassetto. Posso dire di essere nato tra le forme di formaggio e vuoi per gli insegnamenti ricevuti da mio padre e mio nonno, vuoi per l’esperienza che col tempo avevo maturato e non ultimo l’intuizione che con i canali giusti, oltre il pecorino romano localizzato principalmente nel mercato laziale, si sarebbe potuto commercializzare in altre regioni della penisola, anche il prodotto per eccellenza: il Fiore Sardo».

Perché scelse Furtei?

«Pur avendo girato in lungo e in largo la Sardegna dove ho potuto conoscere molti pastori, con Furtei nasce un legame indissolubile. Mi trovai benissimo, la gente mi accolse bene tanto che il 3 agosto del 1961 mi unì in matrimonio con Idelmina Cappai e dalla nostra unione sono nati Cesare, in onore di mio padre, e Clara. Dove se non a Furtei avrei potuto quindi realizzare il mio sogno?»

Quando è iniziata l’attività nel suo caseificio artigiano?

“Il 12 giugno 1967, esattamente 51 anni fa ho iniziato la mia attività. Edificato a fianco alla mia abitazione, nel caseificio ho realizzato anche le cantine per la stagionatura, nelle quali molti produttori di formaggio hanno fatto maturare il loro prodotto. Un riconoscimento importante. Ho fatto la prima lavorazione con 12 litri di latte, datomi da un pastore che faceva la transumanza dal Campidano a Desulo. Una tappa obbligata, per i pastori che portavano le greggi nel nuorese, era il ponte vecchio di Furtei, sotto il quale mungevano le pecore, passavano la notte prima di riprendere il cammino nelle prime ore della mattino successivo perché il viaggio a piedi durava alcuni giorni».

In che cosa si differenzia la lavorazione del pecorino romano?

«È un formaggio a pasta dura con rottura della cagliata molto fine perché è un prodotto destinato alla grattugia. Fino a qualche  decennio fa, una forma di romano pesava dai 12 ai 15 chilogrammi e per la quale occorrevano circa 90 litri di latte, attualmente possono raggiungere anche 35 chilogrammi».

Il latte di questa zona è rinomato, perché?

«La risposta sta tutta nel fatto che sia Furtei sia Segariu hanno pascoli in pianura e in zone collinari. Dal punto di visto quantitativo, questo è uno svantaggio mentre sotto l’aspetto qualitativo è un punto di forza. Anche la salinità di questi pascoli è favorita dal vento che soffia sia dal golfo di Oristano che da quello di Cagliari, trasportando la salsedine. Per ovviare a questa problema, in alcune regioni della penisola devono provvedere manualmente una volta alla settimana a spargere il sale, ingrediente indispensabile nella produzione del latte e del quale tra l’altro le pecore sono golosissime e mai sazie. A tale proposito un proverbio marchigiano recita: pecore, preti e polli non si trovano mai satolli»

Non comincia a essere un po’ stanco dopo una vita di questo pesante lavoro?

«Gli anni cominciano a farsi sentire, è inevitabile però per me fare il formaggio è sempre una grande emozione. È una tua creatura, la devi seguire, curare con amore perché una forma di formaggio è viva, respira. Questo lavoro ci ha dato tante soddisfazioni e la possibilità di crescere anche dal punto di vista aziendale. Nel 1980 abbiamo costruito il nuovo caseifici dove con la collaborazione di mio figlio Cesare e della moglie Rita, di mia figlia Clara con il marito Roby e di mia moglie Mimma, portiamo avanti l’attività. La soddisfazione dei clienti, che apprezzano il nostro prodotto, è certamente la ricompensa più grande anche per un casaro come me che a 82 anni suonati, continua a fare il giro dei suoi affezionati amici pastori che da anni ci forniscono il latte. Il segreto di un buon casaro artigiano è quello di saper scegliere gli allevatori dai quali acquistare la materia prima, perché devi sapere dove pascolano e cosa mangiano le loro pecore, come mi hanno insegnato mio padre e mio nonno che a detta di coloro che li avevano conosciuti, erano dei casari veramente speciali».

Maurizio Onidi

 

RIPRODUZIONE RISERVATA
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