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ATTUALITÀ

Su cuniliu de ajaja in su tianu mannu

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Roberto Lotti

Nell’Ottocento la cucina sarda era semplice, caratterizzata dalle origini più lontane, priva di contaminazioni, decisa, spiccata nei sapori mediterranei, delicata nei profumi,  come lo è  tutt’ora, d’altronde è figlia del territorio da cui proviene e in cui dimorano le origini e la storia. Lo studio scientifico dell’Isola e le condizioni climatiche hanno contribuito all’accrescimento di una innumerevole quantità di piatti ricchi di sapori, preparati con ingredienti non sofisticati e saldamente ancorati alle tradizioni destinate a non tramontare mai. Ecco svelato il segreto del perché i sardi sono  riusciti a conservare col passare dei secoli le proprie abitudini contadine e pastorali, mantenendo le tradizioni che risultano essere una vera roccaforte in tutta l’Isola.

Grazie all’esperienza sull’alimentazione giornaliera acquisita sin da tempi remoti, perfezionata e rivisitata a seguito delle diverse incursione subite da parte dei saraceni che introdussero nell’isola diverse conoscenze in campo agricolo, dai Fenici, dai Punici, dai Romani, dai Genovesi e Pisani per il cui tramite la Sardegna riprese i suoi rapporti con il resto d’Italia, di seguito i Catalani, gli Spagnoli e infine i Piemontesi con i Savoia.

Grazie anche all’inventiva e alla saggezza, il popolo sardo per sopravvivere, si è sempre orientato verso una cucina semplice, con pochi ingredienti, utilizzando le erbe selvatiche e allo stesso tempo valorizzandone le proprietà. Il raccolto dei campi e degli orti, unito al ricorso agli animali dell’aia, quali i conigli, le galline, i maiali, le oche, sono stati la garanzia contro le carestie e i periodi di magra.

Oggi si parla di cucina Mediterranea, ma nell’Ottocento forse non si conoscevano tutti i benefici nonostante gli ingredienti fossero pressoché gli stessi. Ingredienti semplici come la pasta, il pane, l’olio, le olive, i formaggi, i salumi, frutta e verdura, legumi, carne (all’epoca in Sardegna c’erano  notevoli quantità di cinghiali, di cervi, daini, mufloni, conigli, lepri e uccellame di varie specie). Non tutti però si potevano permettere tutto questo ben di Dio e alle famiglie meno abbienti non rimaneva altro che utilizzare le parti meno nobili degli animali  macellati, per esempio le frattaglie, la coda, le orecchie, il  musetto, quello che oggi  viene chiamato quinto quarto. Al posto dell’olio d’oliva usavano la sugna, l’olio ricavato dalla preparazione del formaggio (peraltro utilizzato anche per la frittura delle – sebadas -) e l’olio di lentischio – oll’e stincu -, copiosamente utilizzato da tutte le famiglie che non si potevano permettere l’uso dell’olio d’oliva. Ecco perché questo allora era ritenuto  l’olio dei poveri, in quanto era sufficiente raccogliere le bacche mature e trasformarle in olio attraverso un procedimento particolare ed efficace.

In autunno si raccolgono le bacche, si fanno bollire in acqua sorgiva per mezz’ora, poi si scolano, si travasano dentro a una sacca di tela o di lino, si pressano per filtrare l’olio, quindi si porta  a breve ebollizione il ricavato con l’aggiunta di qualche fico secco – figu sicca -, per addolcirne il gusto aspro dei tannini.  L’olio di lentischio oggi è un prodotto di nicchia, lavorato solo da poche piccole aziende a conduzione familiare e rivolto al palato di una clientela  molto esigente. L’olio di lentischio viene utilizzato in tante ricette, una delle quali è la preparazione del coniglio selvatico, cucinato assieme alle olivelle – orieddu o obieddu -, frutto olivastro di montagna simile alle olivelle taggiasche della Liguria, ricetta ancora in uso nei menu di qualche trattoria e in tante famiglie dell’Isola.

Ingredientis:

un coniglio ruspante di kg 1,5, g 150 di – orieddu o obieddu in salamoia sgocciolate – (frutto olivastro di montagna simile alle olivelle liguri), un cucchiaio di bacche di lentischio – lentisco mature – lostincu de moddizzi – arostincu -, 4 pomodori secchi ben dissalati, 2 spicchi di aglio, un mazzetto di prezzemolo, un mazzetto di timo sardo – armidda -,  brodo vegetale, aceto di vino rosso, olio di lentisco oppure in mancanza olio extravergine d’oliva, strutto, sale e pepe di mulinello a piacere.

Approntadura:

prepara il coniglio, tagliandolo in pezzi regolari, poi puliscili accuratamente in modo che tutte le ossiccine vengano eliminate, quindi accomoda la carne dentro a un’ampia padella con un filo di olio e falla sbiancare per cinque minuti a recipiente coperto. Trascorso questo tempo, getta via il  liquido  formatosi e travasa il coniglio dentro a un capace tegame di terracotta – tianu mannu -, nel quale precedentemente avrai fatto rosolare i pomodori secchi tritati molto finemente insieme all’aglio e ad un generoso giro di olio di lentischio – lentisco o di olio extravergine e un cucchiaio di strutto. Fatto, aggiungi le bacche di lentischio e le olivelle selvatiche, quindi unisci alla preparazione due cucchiaiate di aceto e lascialo sfumare. Terminata questa operazione, bagna il coniglio con una mestolata di brodo bollente e prosegui la cottura a recipiente coperto per circa cinquanta minuti. A metà cottura, aggiungi il prezzemolo, il timo tritati e se occorre aggiungi altro brodo bollente, aggiusta di sale e di pepe e quando la carne risulterà tenera, il fondo di cottura dovrà risultare vellutato e di colore marroncino scuro. Servi – su cuniliu de ajaja in su tianu mannu – il coniglio della nonna in un tegame ampio, immediatamente con pane – carasau – accomodato sulle fondine di servizio. Vino consigliato: Mandrolisai rosato, dal sapore asciutto, sapido con retrogusto amarognolo, armonico, vellutato e caratteristico.

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