di Dario Frau
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Tra i vari mestieri del passato, a parte qualche anziano, pochi, ormai, ricordano quello di s’acconciacossu. Era un mestiere particolare che insieme a quello dell’arrotino, o di chi riparava gli ombrelli, costituiva un punto di riferimento per tante persone che avevano bisogno di questi piccoli, ma essenziali interventi, nella vita di ogni giorno. S’acconciacossu era uno di questi. «Il significato di questa parola deriva, forse, secondo alcuni, dal catalano Su cossiu o cossu che indica un grosso recipiente di terracotta, detto anche sa scivèdda, e da questo, che deriva, dunque, acconcia- cossu, aggiusta-scivedda. (Giuseppe Concas-Nominis.Net).
L’intervento de s’acconciacossu, minuzioso e preciso che richiedeva anche tanta attenzione e pazienza, evitava che un contenitore di terracotta, o un piatto in ceramica, rotto o con qualche fessura, fosse buttato via e perso per sempre. S’acconciacossu, con i suoi strumenti semplici, ma essenziali, faceva tornare come nuova sa pingiada , sa scivedda, sa mariga o sa brogna, che aveva subìto qualche crepa o spaccatura. Questo mestiere, nel passato, era diffuso in diverse zone della Sardegna e questi artigiani giravano per i paesi.
A Pabillonis, famosa in tutta l’isola per la produzione di pingiadas e tianus, ma anche di sciveddas e altri oggetti in terracotta, non potevano mancare, questi “professionisti”. Quest’attività viene segnalata anche dalla studiosa e ricercatrice universitaria Beatrice Annis, che nel suo libro “Ceramiche, storia, linguaggio e prospettiva in Sardegna”, editore Ilisso, si legge: “Quando un manufatto si spaccava dopo la cottura, veniva aggiustato da s’acconcia cossiu, che utilizzava su fusu o girobacchinu, con il quale si realizzavano i fori per accogliere i punti di sutura in ferro”. Dagli anni prima della seconda guerra mondiale e fino agli anni ’60 (almeno da quanto è stato possibile risalire), a Pabillonis, erano le famiglie Sanna e Melis, tra loro legati da stretta parentela ad assicurare queste prestazioni.

I Sanna, con tziu Angelo, conosciuto anche come Giovanni, e i figli tziu Bainzu e tziu Giommaria, arrivati in paese, da Sennori, e già con una solida tradizione nell’ambito dell’artigianato, soprattutto nella produzione di sedatzus e cibirus, ma anche nell’attività di conciacossu. Si unirono in parentela con i Melis di Pabillonis, dando vita a una importante attività artigianale. «Fin da ragazzo ho praticato, insieme a mio nonno Angelo e a mio padre Bainzu, la vendita di sedatzus e cibirus e l’attività di acconciacossu riparando sciveddas, zirus e anche marigas, in molti paesi della Sardegna», racconta Antonio Sanna, 88 anni, figlio di Bainzu. «Era una vita difficile, inizialmente si andava a piedi, poi con un carretto tirato da un asino e poi con carro e cavallo; si guadagnavano pochi soldi, soprattutto per il servizio di acconciacossu venivamo ricompensati con prodotti come uova, galline, salsicce, ma anche “lori”: tutto quello che avevano in casa, però di fame non si moriva!», precisa

Antonio Sanna, che in seguito, si è adeguato ai tempi e con esperienza e intuizione, insieme ai figli, ha dato vita a un Centro di Artigianato Sardo, con una produzione che rifornisce anche i negozi situati nelle zone turistiche dell’isola. Antonio Melis, 84 anni, figlio di Franciscu (Accheddu), la cui sorella aveva sposato Bainzu Sanna, ebbe modo di conoscere e apprendere, da ragazzo, l’attività di acconciacossu.
«Nel passato ci si doveva arrangiare anche con piccole attività, come mio padre, Accheddu Melis (Francesco) e mio fratello Nino che facevano s’acconciacossu; aggiustavano sciveddas qualche pentola e marigas, anche se per queste ci voleva più attenzione perché più sottili».

L’attrezzatura era semplice, ma efficace. «Usavano un trapano manuale di legno a corda (su fusu) che azionava una punta metallica (ricavata da stecche di ombrello) per fare dei buchi nella parte rotta dell’oggetto, dove venivano inserite delle graffette metalliche, ottenute da raggi di ruote di biciclette perché più resistenti, poi tutto veniva sigillato con un po’ di cemento. Mio padre e mio fratello Nino, per tanti anni, hanno aggiustato questi recipienti a casa, ma anche in giro per i paesi». L’attività di acconciacossu, inoltre, veniva svolta anche dallo zio Silvio, fratello del padre Franciscu, che abitava in S’Arriu Mannu, come riferisce ancora il nipote: «Anche tzieddu Silviu, fratello di babbai, aggiustava sciveddas e pingiadas, ma anche ombrelli, i compaesani si recavano a casa sua, portando gli oggetti da aggiustare, e come gli altri parenti, andava in giro, anche nei paesi vicini e nelle località della Marmilla e della Trexenta. Tzieddu Silviu, poi, oltre a svolgere l’attività di acconciacossu, realizzava anche sedatzus e cibirus che venivano utilizzati per la cernita dei cerali e legumi e per setacciare la farina: mestiere che aveva anche trasmesso ai figli Giovanni e Pinuccio che hanno, poi, portato avanti, questa attività, per tutta la loro vita».

Testimonianze su queste forme di artigianato praticate anche da Nino Melis vengono fornite dalla figlia Ermelinda: «Anche mio padre realizzava cibirus e seddatzus, che andava a vendere in bicicletta, nei paesi e nelle fiere, e faceva “s’acconciacossu”, ma non solo, era anche “liauneri” (lattoniere), faceva caffettiere utilizzando la latta dei barattoli di conserva e, quando erano rotte, le aggiustava con su stangiu; inoltre era un abilissimo artigiano di tegole, e aveva lavorato in diversi forni, sia a Pabillonis sia a Guspini: è stato uno degli ultimi tegolai del paese».
L’arte di fabbricare le tegole della famiglia Melis viene ricordata e messa in evidenza anche da Antonio Melis: «Babbai Franciscu faceva le tegole, prima nel laboratorio dei Caboni in su bixinau de S’Arriu Mannu e poi da Tigellio Lisci in vico San Giovanni dove vi andava anche mio fratello Nino e un nostro vicino di casa tziu Maurizio Manca, abilissimo tegolaio, originario di Silì, paese di tegolai». Una volta diminuita la produzione manuale delle tegole, sostituita, ormai, da quella Nino Melis si dedicò, quasi interamente alla realizzazione di sedatzus e cibirus, all’attività di acconciacossu e alla vendita ambulante di oggetti di artigianato, come raccontano i figli Giorgio e Venanzio.
«Io, fin da piccolo, intorno agli anni ‘60, andavo spesso con mio padre, arrivati nei paesi, si girava nelle strade e issu annunciava il suo arrivo con “si bendinti cibirusus e sedatzus e s’arrangianta sciveddas, vasus, brognas e marigas!». Le casalinghe si affacciavano incuriosite, controllavano qualche cibiru o sedatzu, si tirava sul prezzo, alla fine, però, qualche pezzo veniva venduto; altre donne si facevano aggiustare sciveddas qualche mariga o brogna. Mio padre si sistemava vicino all’uscio della loro casa, portava fuori da una valigetta gli “attrezzi” da lavoro e, con il trapano manuale, in legno e a corda, faceva dei buchi ai lati della fessura/spaccatura, vi inseriva graffette in ferro e poi fissava tutto con un po’ di cemento. Una volta finito il lavoro chiedeva, alla cliente, “Ita teneis de mi donai in cambiu?”. Di solito non veniva pagato in soldi, ma con pane, uova, legumi, salsiccia e qualche gallina», racconta Venanzio.

Anche Giorgio, 50 anni, l’ultimo nato dei figli di Nino Melis, riferisce qualche particolare sull’attività paterna. «Gli unici ricordi che ho di mio padre quando faceva l’acconciacossu era quando aggiustava sciveddas e vasi, che le signore del paese, portavano a casa. Se aveva tempo, le aggiustava subito, altrimenti diceva di tornare dopo alcuni giorni. Ricordo che se sa scivedda era solo “fibada” prendeva il suo trapano (su fusu) di legno e iniziava a bucare da ambedue i lati della filatura a una distanza di 3/4 cm, infilava le graffette e copriva il tutto con un po’ di cemento. Per verificare che il lavoro fosse riuscito bene, dava, poi, un colpo di nocche alla scivedda e dal rimbombo più o meno sonoro del recipiente, capiva che era aggiustata bene. Oggi, il mestiere de s’acconciacossu è ormai scomparso, ma Antonio Melis, che aveva appreso i segreti di quest’arte, dal padre Franciscu e ha ereditato anche il suo antico strumento, dopo tanti anni non ha dimenticato il suo funzionamento. «Io ho ancora su fusu, perfettamente funzionante nonostante abbia più di ottant’anni, che aveva costruito babbai in sa falegnameria di tziu Pierino Floris, su mestu de carru, che abitava anche lui in su bixinau de Campusantu (ora via Parini), e con quello ho aggiustato alcune sciveddas, mezze rotte, a casa le usiamo ancora».
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