di Simone Muscas
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C’era una volta un ragazzo che partendo da Las Plassas, piccola comunità della Marmilla di appena duecento anime appena sotto l’altopiano della Giara e ombreggiata da un castello medievale, riuscì a partecipare alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984 correndo insieme a un mito dell’atletica leggera, Pietro Menna.
Sembrerebbe una favola, ma non lo è.
Il protagonista è Ernesto Nocco, oggi sindaco di Las Plassas, ma con un passato da atleta di successo il cui culmine della carriera, oltre a tante vittorie nelle gare di velocità, è stata proprio quell’olimpiade americana.
Una storia la sua che fa riflettere e comprendere che il destino, per quanto sembri sia scritto, può essere cambiato se dentro ci metti cuore e determinazione.
La carriera di Ernesto come velocista sembrava infatti non dovesse aver mai inizio per via di una profezia, rivelatasi palesemente errata, che lo voleva non adatto alla pratica dell’atletica leggera: «Un mio insegnante quando avevo appena 15 anni – racconta Nocco – mi disse che l’atletica leggera non si addiceva alle mie caratteristiche fisiche. Presi talmente alla lettera le sue parole che decisi di non proseguire: iniziai a praticare il calcio, addirittura nel ruolo di portiere, l’antitesi a quella di un velocista».
La storia di Ernesto Nocco da Las Plassas ha però una svolta inattesa: a 20 anni entra nel corpo della Guardia di Finanza e lì viene notato da alcuni osservatori proprio per le sue doti atletiche esplosive. Di lì l’ascesa: tanti successi in campo nazionale e internazionale nelle gare di velocità dei 400 e degli 800 metri piani che lo portano addirittura alla convocazione alla nazionale dalla quale però viene successivamente escluso.

«La partecipazione alle Olimpiadi sembrava ormai un sogno sfumato – ricorda il velocista – sino a quando non mi venne detto di prepararmi per le visite mediche: in quell’aereo per l’America che sarebbe partito l’indomani vi era un posto per me. La stampa e il mio direttore sportivo avevano fatto pressione perché io venissi convocato. Una svolta nella mia vita da professionista di sport e non solo: vivere quelle Olimpiadi fu infatti un’emozione incredibile».
A Los Angeles corse la seconda frazione delle semifinali e della finale della staffetta 4 x 400 fermandosi a un quinto posto che, per una squalifica, diventerà poi quarto a un soffio dal podio. Di quel quartetto finalista, come ultimo frazionista, faceva parte anche tale Pietro Mennea da Barletta, oro olimpico nel 1980, per diciassette lunghi anni detentore del record mondiale sui 200 metri piani con un tempo, 19 minuti e 72 secondi, primato europeo ancora in essere dal 1979: «Un grande atleta e signore, – lo ricorda Nocco – non così scontroso come lo descrivevano, anzi era simpatico oltre che leader silenzioso: se non c’era si avvertiva la sua assenza, ma se era presente non si faceva notare». La carriera di Nocco si chiuderà negli anni ’90 fra successi e soddisfazioni, ma anche con il rimpianto per averla iniziata non più giovanissimo. Aspetto, quest’ultimo, che lui stesso condivide appieno facendo però anche una riflessione personale: «Chissà che quella previsione errata del mio insegnante non sia stato l’elemento chiave che mi ha dato la forza di reagire».
Al di là di ciò che è stata, la carriera di Ernesto Nocco è da inquadrare come un vero e proprio inno a credere quanto più possibile in sé stessi. In fondo cosa c’è di più romanzesco che arrivare a un passo dal podio olimpico partendo da una piccola comunità di appena duecento anime? E, soprattutto, raggiungere quel risultato con a fianco un sedicente mentore che non crede nel tuo talento? Due aspetti, questi, dai quali tanti giovani potrebbero chissà trarne virtù positive. Perché in fondo lo sport è prima di tutto una metafora della vita ed Ernesto Nocco, con la sua storia, è stato maestro del fatto che solo se non si smette mai di credere fortemente in ciò che si desidera i sogni si convertono in realtà.



























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